Che non sarebbe stata una formalità già si sapeva. E meno male. Dopo tanto dispendio di tempo, fegato e denaro per frequentare i tre livelli dell'Associazione italiana sommelier ci sarei rimasto davvero male se il temuto esamone finale si fosse risolto "a tarallucci e vino". Invece, nel mio caso, è finito a Chianti Classico e Pecorino Senese. Anzi, iniziato, visto che i giochi sono cominciati intorno alle 14,30 proprio dalla valutazione di un bianco (Sauvignon) e dalla scheda di abbinamento vino e cibo. All'altra metà dei corsisti è toccato valutare, invece, un bianco col vitello tonnato.
Piatti freddi, avevamo preventivato. E piatti freddi sono stati.
Dopodiché via con il questionario. Vero falso, domande a risposta multipla. Fino a giocarsi tutto sulle 10 domande aperte, quelle più pesanti ai fini del punteggio finale. Constatazione. Se si arriva all'esame senza lacune particolari le dieci domande sono assolutamente accessibili.
A spanne, a me è toccato:
1) Docg e relativi vitigni di Veneto, Abruzzo e Campania.
2) Procedimento di produzione della birra e differenza tra birre ad alta e bassa fermentazione.
3) Quali sono le 3 voci nella scheda vino che pesano più per coefficiente di punteggio (e qual è il coefficiente).
4) Differenza tra Whisky e Whiskey e metodo di produzione del Whisky scozzese.
5) Fillossera
6) Maturazione fenolica e maturazione tecnologica
7) Vitigni, zona di produzione, tipologie di Porto
8) 3 esempi di abbinamento x concordanza di vini e piatti aromatici
9) risotto, scampi e zucchine: caratteristiche e tre vini da abbinamento
10) California: zone vinicole e relativi vitigni
Qualche nozionismo "spinto" solo nei vero-falso e nelle risposte multiple (es. gradi Babo e acidità dell'Extravergine), ma tanto quelle valgono poco.
Consapevole di aver inevitabilmente scritto qualche minchiata, confido nell'orale. Appuntamento al 5 maggio. Stay tuned.
N.T.
mercoledì 22 aprile 2009
giovedì 16 aprile 2009
Abbuffata didattica con tormentone
E infine arrivarono le Sacher e saltò l'ultimo tappo: quello della 50 cl di Tre Filer 2005 di Ca' dei Frati. Si è concluso con questo abbinamento volutamente stiracchiato per i capelli il cenone didattico pre-esamone finale Ais. Martedì ci aspettano gli scritti e avevamo voglia di stemperare paure, dubbi, curiosità riuniti intorno a una tavola nella splendida magione di un nostro compagno di avventura, con finestre sull'Adda e sul Castello dell'Innominato e guardata a vista da Dick, un enorme pastore alsaziano a pelo lungo. Serata riuscita alla grande. Unico neo: ho scordato la digitale. Pace.
Non mi dilungo a descrivere le cinque bottiglie che hanno preceduto il dolce passito gardesano e che hanno accompagnato magnificamente salmone, halibut, branzino e trota affumicata, culatello, Parma, salame di Felino, lardo di Colonnata e lardo di Arnad, Grana Padano, Pecorino senese, Bitto, Gorgonzola e Roquefort.
Dico solo che, con la scusa che ciascuno dei convitati aveva l'obbligo di coprire le proprie bottiglie con la carta stagnola per dare alla degustazione un tocco di suspence e mistero, un burlone ha avuto la geniale idea di rifilarci una sòla. Ma noi l'abbiamo sbugiardato subito, bocciando incondizionatamente quel rosso acidulo e privo di tannini che l'amico voleva spacciarci x grande vino. Che era, invece, davvero un Vino del Cazzo.
La serata da goliardi edonisti - roba che, se davvero esistesse il contrappasso, nella prossima vita rinasceremmo tutti nel Terzo Mondo - si è conclusa, dicevo, con due splendide Sacher della pasticceria "Arte e Sapori" di Oggiono (Lc), una strepitosa oasi di delizia nel grigiore del gusto brianzolo.
Accompagnate, per l'occasione, con il Tre Filer della lombarda Ca' dei Frati, azienda venerata dai cultori del Lugana. Ed è qui che, a coronare la serata goliardica, è partito puntuale il tormentone, quello del "risottone".
Già, perché questo passito barricato da uve trebbiano di Lugana integrate con chardonnay e sauvignon ha rivelato un'ottima intensità aromatica fruttata di pesca bianca, agrumi canditi, albicocca, floreale di camomilla, "sporcata" però da una nota piuttosto evidente di soffritto di cipolle che ha fatto pensare a tutti al risotto giallo, forse anche per via della persistenza infinita del Sauternes "zafferanoso" che lo aveva preceduto sul tavolo di degustazione. Ad ogni modo il Tre Filler si è subito riscattato in bocca, con un corpo ben distribuito tra morbidezze e durezze, anche se sono state queste ultime a prevalere per via della decisa sapidità e dell'ottima freschezza sospinta anche dal retrogusto finale di pompelmo rosa. Senza dubbio un ottimo passito, anche se siamo stati tutti concordi nel preferire gli altri bianchi secchi della mitica azienda di Sirmione. Oltretutto l'acidità del vino mal si è sposata con quella della marmellata di cui abbondavano - giustamente - le Sacher. Un vino come il Tre Filer avrebbe avuto senza dubbio maggior fortuna con un fegato d'oca o con dei dolci cremosi a pasta sfoglia. Ripasso a parte, la cena è servita ad avere conferma dei timori manifestati all'ultima lezione da Rossella Romani, docente e vicepresidente Ais nazionale: hanno creato dei mostri.
N.T.
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lunedì 13 aprile 2009
Vinitaly 2009, le dritte del maestro Guido Invernizzi
Guido Invernizzi, vulcanico sommelier della sezione Ais di Novara, ci guida anche quest'anno alla scoperta di alcuni tesori nascosti tra i padiglioni del Vinitaly.
Vini tanto buoni da bersene, come lui stesso ammetterebbe a telecamere spente, interi tir e autocisterne. Dopo avere avuto la fortuna di seguire alcune sue lezioni durante i corsi Ais sono assolutamente convinto che con un po' di allenamento alla diretta il buon medico d'origine lecchese potrebbe diventare un animale televisivo assolutamente impareggiabile. Ma anche totalmente sprecato in rubriche da fine Tg inutili, impagliate e stucchevoli come i vari "Gusto" e affini.
N.T.
Vini tanto buoni da bersene, come lui stesso ammetterebbe a telecamere spente, interi tir e autocisterne. Dopo avere avuto la fortuna di seguire alcune sue lezioni durante i corsi Ais sono assolutamente convinto che con un po' di allenamento alla diretta il buon medico d'origine lecchese potrebbe diventare un animale televisivo assolutamente impareggiabile. Ma anche totalmente sprecato in rubriche da fine Tg inutili, impagliate e stucchevoli come i vari "Gusto" e affini.
N.T.
sabato 4 aprile 2009
Tra sorprese e conferme, al Vinitaly si scavalla anche la crisi
Potremmo eleggere a simbolo del Vinitaly 2009 la gigantesca macchina scavallante di fabbricazione olandese che incombe minacciosa al centro del piazzale tra i padiglioni di Puglia e Toscana. Pare uscita direttamente da Terminator per scavallare vigne e crisi. Crisi? Il mondo del vino riunito nell'annuale appuntamento a Verona per la manifestazione enologica più importante del pianeta pare godere di perfetta forma, immune dalle sciagure dell'economia mondiale. Almeno, questa è l'impressione che ho avuto nella mia consueta due giorni, giovedì e venerdì, riservata agli operatori.
Ma si sa, questi eventi sono fatti apposta per, appunto, mettersi in mostra comunque e nonostante tutto. Per regalare sorrisi a profusione, farsi dei gran complimentoni e distribuire generose strette di mano a destra e a manca. E la crisi? Non c'è. Arriverà, forse. L'onda lunga dello Tsunami bancario scoppiato in America deve ancora travolgere il settore vinicolo europeo, specie quello italiano e francese, i due principali esportatori di vino del mondo. Tuttavia l'impressione è che la tanto paventata "onda lunga" arriverà, se arriverà, giusto a bagnare le punte dei piedi ai nostri produttori. Che si fanno forti di una fama costruita in anni e anni di lavoro serio, di selezioni in vigna sempre più esasperate, di sopraffine tecniche di cantina, di investimenti sull'enoturismo che fanno ben sperare.
Detto questo, parliamo di vino. Ho scoperto che l'Asprinio di Aversa di Grotta del Sole fa capottare in veranda da tanto che è buono, così come il loro Gragnano sorrentino, uno stupefacente rosso frizzante degno del miglior Lambrusco padano. Ho avuto la conferma che di Lugana del Garda me ne berrei intere autocisterne, non a caso il vitigno è parente strettissimo del mio amato Verdicchio marchigiano. Così come il Sauvignon del Veneto e il Gewurztraminer altoatesino mi fanno godere come un matto. Non posso dire altrettanto delle mediaticamente pompatissime bollicine Docg di una nota azienda dell'Oltrepo che in sala stampa ha scatenato una sadicissima caccia alla puzza tra me e un paio di colleghi. Alla fine ha vinto il sentore di sudore secco di ascella di vignaiolo con maglia di lana. Quando ci si mette, il pinot nero sa essere ancor più capriccioso e fetente dei giornalisti!
Ho scoperto quanto sono buoni tutti i nebbiolo del Piemonte minore, soprattutto quelli di Boca, Lessona e Carema.
Mi sono illuso di essere al cospetto del mitico Giovanni Cherchi, icona della vitivinicoltura di Gallura e autore di un Vermentino e di un Cagnulari assolutamente impareggiabili. E invece era un suo parente affiancato dai nipoti del titolare, intagliati in lineamenti duri e cortesi alla Gianfranco Zola.
Ho avuto la conferma che l'Aglianico se la gioca alla grande con il Barolo per l'élite del miglior rosso d'Italia, quindi d'Europa, quindi del mondo.
Ho dovuto anche ricredermi sul Chianti Classico, che ho sempre giudicato "roba per americani" e che, invece, può ancora essere un grandissimo grazie a qualche produttore fedele per lignaggio alle tradizioni, come il Conte Sebastiano Capponi, o a enotecnici intelligenti e moderni come Paolo de Marchi di Isole e Olena, di cui ho apprezzato molto di più lo schietto Chianti Classico 2006 che non il blasonatissimo supertuscan Cepparello, annata 2005.
Ma, più che tutto, ho avuto la conferma che, spesso, le soprese migliori e gli aneddoti più interessanti è facile che arrivino proprio dagli stand meno frequentati dai lettori di guide, riviste e annuari vari. Metti il vino di San Colombano, per esempio. Il cosiddetto "vin de Milan", che in realtà è più piacentino che meneghino. Lo fanno una quindicina di aziende su una collina a sud di Lodi, a circa 50 km da Milano, presso il confine con l'Emilia. Indimenticabile, per esempio, il Franco Riccardi dell'azienda Nettare dei Santi, sorta di delizioso ed economico (solo 8 euro!) "Sforzato" o "Amarone", vedete un po' voi, da appassimento di uve merlot e cabernet sauvignon. Davvero un vino della madunina!
Nicola Taffuri
Ma si sa, questi eventi sono fatti apposta per, appunto, mettersi in mostra comunque e nonostante tutto. Per regalare sorrisi a profusione, farsi dei gran complimentoni e distribuire generose strette di mano a destra e a manca. E la crisi? Non c'è. Arriverà, forse. L'onda lunga dello Tsunami bancario scoppiato in America deve ancora travolgere il settore vinicolo europeo, specie quello italiano e francese, i due principali esportatori di vino del mondo. Tuttavia l'impressione è che la tanto paventata "onda lunga" arriverà, se arriverà, giusto a bagnare le punte dei piedi ai nostri produttori. Che si fanno forti di una fama costruita in anni e anni di lavoro serio, di selezioni in vigna sempre più esasperate, di sopraffine tecniche di cantina, di investimenti sull'enoturismo che fanno ben sperare.
Detto questo, parliamo di vino. Ho scoperto che l'Asprinio di Aversa di Grotta del Sole fa capottare in veranda da tanto che è buono, così come il loro Gragnano sorrentino, uno stupefacente rosso frizzante degno del miglior Lambrusco padano. Ho avuto la conferma che di Lugana del Garda me ne berrei intere autocisterne, non a caso il vitigno è parente strettissimo del mio amato Verdicchio marchigiano. Così come il Sauvignon del Veneto e il Gewurztraminer altoatesino mi fanno godere come un matto. Non posso dire altrettanto delle mediaticamente pompatissime bollicine Docg di una nota azienda dell'Oltrepo che in sala stampa ha scatenato una sadicissima caccia alla puzza tra me e un paio di colleghi. Alla fine ha vinto il sentore di sudore secco di ascella di vignaiolo con maglia di lana. Quando ci si mette, il pinot nero sa essere ancor più capriccioso e fetente dei giornalisti!
Ho scoperto quanto sono buoni tutti i nebbiolo del Piemonte minore, soprattutto quelli di Boca, Lessona e Carema.
Mi sono illuso di essere al cospetto del mitico Giovanni Cherchi, icona della vitivinicoltura di Gallura e autore di un Vermentino e di un Cagnulari assolutamente impareggiabili. E invece era un suo parente affiancato dai nipoti del titolare, intagliati in lineamenti duri e cortesi alla Gianfranco Zola.
Ho avuto la conferma che l'Aglianico se la gioca alla grande con il Barolo per l'élite del miglior rosso d'Italia, quindi d'Europa, quindi del mondo.
Ho dovuto anche ricredermi sul Chianti Classico, che ho sempre giudicato "roba per americani" e che, invece, può ancora essere un grandissimo grazie a qualche produttore fedele per lignaggio alle tradizioni, come il Conte Sebastiano Capponi, o a enotecnici intelligenti e moderni come Paolo de Marchi di Isole e Olena, di cui ho apprezzato molto di più lo schietto Chianti Classico 2006 che non il blasonatissimo supertuscan Cepparello, annata 2005.
Ma, più che tutto, ho avuto la conferma che, spesso, le soprese migliori e gli aneddoti più interessanti è facile che arrivino proprio dagli stand meno frequentati dai lettori di guide, riviste e annuari vari. Metti il vino di San Colombano, per esempio. Il cosiddetto "vin de Milan", che in realtà è più piacentino che meneghino. Lo fanno una quindicina di aziende su una collina a sud di Lodi, a circa 50 km da Milano, presso il confine con l'Emilia. Indimenticabile, per esempio, il Franco Riccardi dell'azienda Nettare dei Santi, sorta di delizioso ed economico (solo 8 euro!) "Sforzato" o "Amarone", vedete un po' voi, da appassimento di uve merlot e cabernet sauvignon. Davvero un vino della madunina!
Nicola Taffuri
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