Potremmo eleggere a simbolo del Vinitaly 2009 la gigantesca macchina scavallante di fabbricazione olandese che incombe minacciosa al centro del piazzale tra i padiglioni di Puglia e Toscana. Pare uscita direttamente da Terminator per scavallare vigne e crisi. Crisi? Il mondo del vino riunito nell'annuale appuntamento a Verona per la manifestazione enologica più importante del pianeta pare godere di perfetta forma, immune dalle sciagure dell'economia mondiale. Almeno, questa è l'impressione che ho avuto nella mia consueta due giorni, giovedì e venerdì, riservata agli operatori.
Ma si sa, questi eventi sono fatti apposta per, appunto, mettersi in mostra comunque e nonostante tutto. Per regalare sorrisi a profusione, farsi dei gran complimentoni e distribuire generose strette di mano a destra e a manca. E la crisi? Non c'è. Arriverà, forse. L'onda lunga dello Tsunami bancario scoppiato in America deve ancora travolgere il settore vinicolo europeo, specie quello italiano e francese, i due principali esportatori di vino del mondo. Tuttavia l'impressione è che la tanto paventata "onda lunga" arriverà, se arriverà, giusto a bagnare le punte dei piedi ai nostri produttori. Che si fanno forti di una fama costruita in anni e anni di lavoro serio, di selezioni in vigna sempre più esasperate, di sopraffine tecniche di cantina, di investimenti sull'enoturismo che fanno ben sperare.
Detto questo, parliamo di vino. Ho scoperto che l'Asprinio di Aversa di Grotta del Sole fa capottare in veranda da tanto che è buono, così come il loro Gragnano sorrentino, uno stupefacente rosso frizzante degno del miglior Lambrusco padano. Ho avuto la conferma che di Lugana del Garda me ne berrei intere autocisterne, non a caso il vitigno è parente strettissimo del mio amato Verdicchio marchigiano. Così come il Sauvignon del Veneto e il Gewurztraminer altoatesino mi fanno godere come un matto. Non posso dire altrettanto delle mediaticamente pompatissime bollicine Docg di una nota azienda dell'Oltrepo che in sala stampa ha scatenato una sadicissima caccia alla puzza tra me e un paio di colleghi. Alla fine ha vinto il sentore di sudore secco di ascella di vignaiolo con maglia di lana. Quando ci si mette, il pinot nero sa essere ancor più capriccioso e fetente dei giornalisti!
Ho scoperto quanto sono buoni tutti i nebbiolo del Piemonte minore, soprattutto quelli di Boca, Lessona e Carema.
Mi sono illuso di essere al cospetto del mitico Giovanni Cherchi, icona della vitivinicoltura di Gallura e autore di un Vermentino e di un Cagnulari assolutamente impareggiabili. E invece era un suo parente affiancato dai nipoti del titolare, intagliati in lineamenti duri e cortesi alla Gianfranco Zola.
Ho avuto la conferma che l'Aglianico se la gioca alla grande con il Barolo per l'élite del miglior rosso d'Italia, quindi d'Europa, quindi del mondo.
Ho dovuto anche ricredermi sul Chianti Classico, che ho sempre giudicato "roba per americani" e che, invece, può ancora essere un grandissimo grazie a qualche produttore fedele per lignaggio alle tradizioni, come il Conte Sebastiano Capponi, o a enotecnici intelligenti e moderni come Paolo de Marchi di Isole e Olena, di cui ho apprezzato molto di più lo schietto Chianti Classico 2006 che non il blasonatissimo supertuscan Cepparello, annata 2005.
Ma, più che tutto, ho avuto la conferma che, spesso, le soprese migliori e gli aneddoti più interessanti è facile che arrivino proprio dagli stand meno frequentati dai lettori di guide, riviste e annuari vari. Metti il vino di San Colombano, per esempio. Il cosiddetto "vin de Milan", che in realtà è più piacentino che meneghino. Lo fanno una quindicina di aziende su una collina a sud di Lodi, a circa 50 km da Milano, presso il confine con l'Emilia. Indimenticabile, per esempio, il Franco Riccardi dell'azienda Nettare dei Santi, sorta di delizioso ed economico (solo 8 euro!) "Sforzato" o "Amarone", vedete un po' voi, da appassimento di uve merlot e cabernet sauvignon. Davvero un vino della madunina!
Nicola Taffuri
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