Non capita spesso di trovarsi faccia a faccia con un enologo di fama internazionale. E Régis Camus è senza dubbio uno dei più grandi winemaker della storia dello Champagne. In forza dal 1994 alla storica maison Piper Heidsieck (1785), dal 2002 ha ereditato dal suo maestro Daniel Thibault il ruolo di chef de cave nella prestigiosa casa spumantistica di Reims. Da allora è stato premiato per ben cinque volte come "Winemaker dell’anno" dall’UK International Wine Challenge (2004, 2007, 2008, 2009, 2010). Sempre nel 2010 la competizione internazionale britannica ha eletto il suo Charles Heidsieck Brut Vintage 2000 come il migliore Champagne dell’anno. Nonostante i trionfi e un potere pressocché assoluto sull'impronta da dare ai 9milioni di bottiglie che escono ogni anno dai due marchi Piper Heidsieck (8 milioni) e Charles Heidsieck (1 milione) che egli stesso ha voluto unificare e vinificare nel medesimo stabilimento, Régis mantiene sempre quell'espressione sardonica da mente illuminata e relativista e snocciola aneddoti divertenti come a dire: "Suvvia, stiamo sempre parlando di bollicine". Già, ma che bollicine! Qui siamo a livelli di qualità eccelsi. Questo è lo Champagne. Tutto il resto, fuori dalla denominazione, non è altro che "sparkling wine", come tiene a sottolineare la responsabile marcketing dell'azienda, a proposito delle neonate bollicine inglesi.
Per lo Champagne ci vuole quella terra lì, 150 km a est di Parigi, fredda e umida fuori ma scaldata nel ventre da uno strato di gesso spesso parecchie decine di metri, dove i romani scavarono miniere a forma di piramidi (le crayères, le 'gessaie') e dove, a partire dal 1600, vennero create le prime cantine di invecchiamento del neonato 'vino rifermentato'.
Lì sotto, infatti, la temperatura è sempre intorno agli 11°C, la luce filtra fioca dalle poche aperture nel terreno, 20 metri più in alto, e il gesso morbido attutisce la pur minima vibrazione. E' lì che, prima su cataste e poi sulle pupitres in attesa della sboccatura, riposano "sur liés", sui lieviti, tutte le bottiglie della maison. Minimo 24 mesi il Brut di Piper, 36 quello di Charles. Per arrivare ai minimo 5 e 8 anni per i rispettivi Millesimati. Come quello, per l'appunto, fresco vincitore a Londra.
E poi ci vogliono quel tris di vitigni chardonnay, pinot nero e pinot meunier che solo a Reims e dintorni trovano le condizioni ideali per dare vita ai vins clairs, ovvero alle basi, i vini fermi che, assemblati e addizionati di lieviti e zuccheri, rendono possibile il miracolo del metodo champenois.
Ed è proprio qui che, da settembre a giugno, interviene lo chef de cave. Assaggiando, testando, confrontando le caratteristiche dei vini fermi prodotti dalla vinificazione separata dei tre vitigni, provenienti dagli oltre 200 cru da cui si rifornisce l'azienda. Solo un 10% dei vigneti, infatti, è di proprietà della maison; le altre uve vengono acquistate da contadini 'récoltants'. Ogni giorno Régis e la sua ristretta squadra di collaboratori assaggiano e confrontano i vari campioni di vino. E in un gioco a esclusione danno le pagelle e decidono come comporre le varie cuvée. Quali vini e di quali cru destinare a Charles e quali a Piper. Quali quelli che possono dare vita a dei millesimi memorabili e quali quelli tanto eccelsi da andare a rimpinguare le riserve destinate a correggere negli anni a seguire le annate meno fortunate. Come quella scipita e annacquata del 2001, oppure quella torrida e surmatura del 2003.
Altro compito dello chef de cave è proprio quello di mantenere il prodotto sempre ad altissimi livelli di qualità, anno dopo anno, e di renderlo sempre riconoscibile.
Il tutto, come dice Régis, "vestendo l'austero pinot nero con gli aromi floreali e fruttati dello chardonnay e con il colore e l'allegria del pinot meunier".
Per un vino unico e inimitabile. Perché, è lui a ricordarcelo, "sempre di vino stiamo parlando".
domenica 28 novembre 2010
giovedì 30 settembre 2010
Un Montecompatri da "Promised Land"
In questi giorni stavo liberando il cell da una marea di sms che mi avevano intasato la memoria della Sim e mi sono ritrovato questo messaggio salvato nella cartella bozze.
"Virtù Romane, Tenuta Le Quinte, Montecompatri Superiore 2008".
E mi sono ricordato.
Della lunga attesa fuori dall'Olimpico, della voce di Bruce che rimbalzava contro la Monte Monte Mario con un'irriverente eco, della caccia alla band, di Trastevere e di quella bandana in vertina.
A CENA CON LITTLE STEVEN
Domenica 19 luglio 2009, stadio Olimpico di Roma. Prima delle tre tappe italiane del nuovo tour di Bruce Springsteen con la E Street Band, a un solo anno di distanza dal mostruoso Magic Tour. Inizio previsto ore 22, per colpa della concomitanza dei mondiali di nuoto, in scena nell'adiacente villaggio olimpico. Concerto bello ma non epico, per via della lunga snervante attesa e di un'acustica pessima. Ma il Boss come al solito non si risparmia e, tra cavalli di battaglia vecchi e nuovi e ripescaggi a sorpresa, manda in delirio lo stadio.
Tant'è che, sulla scia dell'esaltazione della sera prima, il lunedì lo passiamo a dare la caccia alla band, asserragliata nell'Hotel De Russie, a due passi da piazza del Popolo.
Ed è così che, tra una fugace stretta di mano a Charlie Giordano e una pacca sulla spalla a Max Weimberg, un autista ci fa la soffiata: Bruce e Little Steven andranno a cena in un noto ristorante a Trastevere, dalle parti di Ponte Cestio.
Risultato: dopo aver battuto in lungo e in largo le numerose trattorie e pizzerie del quartiere tiberino, mia sorella ci dà la dritta che aspettavamo:
"Da quella vertina si vede un tipo con la bandana...".
Eccolo. Little Steven. E...Bruce?
L'insegna è quella dell'Osteria La Gensola.
Entriamo e veniamo accompagnati dal cameriere nella saletta interna, osservando di soppiatto la tavolata del chitarrista newyorkese alla ricerca di un suo sguardo e, soprattutto, del suo Boss. Nulla. Little è da solo, con amici. Però, che figata...a cena nello stesso ristorante di Little Steven!
Volevo il Frascati ma...viva il Montecompatri!
La cena è stata ottima, il locale delizioso e il personale molto cordiale.
Altri dettagli, via di uno stupendo spaghetto cacio e pepe e di un'amatriciana da urlo, non li ricordo, tale era lo stato di trance al pensiero che verosimilmente, di lì a poco, avrei conosciuto una leggenda del rock.
Però il nome del vino me lo sono segnato sul telefonino.
Avevo chiesto un Frascati Superiore ma il sommelier, figlio del titolare, è riuscito a rifilarmi un'altra etichetta con la sfacciata spontaneità che solo i romani e i napoletani riescono ad avere.
Però mi è andata bene, perché ho scoperto un grande vino bianco di una denominazione che non avevo ancora assaggiato: Montecompatri Doc Superiore "le Virtù Romane" 2008, Tenuta Le Quinte.
Accattivante blend di tutte le uve bianche tipiche del Lazio, dalla malvasia puntinata, al trebbiano, bellone e bonvino, si presenta al naso con fragranti profumi di pesca, caprifoglio, erba fresca e mandorle, sospinti da un delicato alito etereo molto seducente. Sensazioni che ritornano in bocca inserite in un corpo di grande freschezza e buona struttura, per un vino che invoglia fino all'ultimo sorso e si congeda con un appetitoso retrogusto fruttato e ammandorlato. In enoteca si trova a circa 10 euro, per una gradazione alcolica di 13,5%.
E Little Steven? Beh, addolcito dalla buona cena e sedotto dal vino romano, si è concesso per sigaretta e foto di rito, con tanto di battuta ironica quando gli abbiamo detto che l'indomani ci saremmo rivisti a Torino e, due giorni dopo ancora, a Udine.
"You're crazy, my friends!".
"Virtù Romane, Tenuta Le Quinte, Montecompatri Superiore 2008".
E mi sono ricordato.
Della lunga attesa fuori dall'Olimpico, della voce di Bruce che rimbalzava contro la Monte Monte Mario con un'irriverente eco, della caccia alla band, di Trastevere e di quella bandana in vertina.
A CENA CON LITTLE STEVEN
Domenica 19 luglio 2009, stadio Olimpico di Roma. Prima delle tre tappe italiane del nuovo tour di Bruce Springsteen con la E Street Band, a un solo anno di distanza dal mostruoso Magic Tour. Inizio previsto ore 22, per colpa della concomitanza dei mondiali di nuoto, in scena nell'adiacente villaggio olimpico. Concerto bello ma non epico, per via della lunga snervante attesa e di un'acustica pessima. Ma il Boss come al solito non si risparmia e, tra cavalli di battaglia vecchi e nuovi e ripescaggi a sorpresa, manda in delirio lo stadio.
Tant'è che, sulla scia dell'esaltazione della sera prima, il lunedì lo passiamo a dare la caccia alla band, asserragliata nell'Hotel De Russie, a due passi da piazza del Popolo.
Ed è così che, tra una fugace stretta di mano a Charlie Giordano e una pacca sulla spalla a Max Weimberg, un autista ci fa la soffiata: Bruce e Little Steven andranno a cena in un noto ristorante a Trastevere, dalle parti di Ponte Cestio.
Risultato: dopo aver battuto in lungo e in largo le numerose trattorie e pizzerie del quartiere tiberino, mia sorella ci dà la dritta che aspettavamo:
"Da quella vertina si vede un tipo con la bandana...".
Eccolo. Little Steven. E...Bruce?
L'insegna è quella dell'Osteria La Gensola.
Entriamo e veniamo accompagnati dal cameriere nella saletta interna, osservando di soppiatto la tavolata del chitarrista newyorkese alla ricerca di un suo sguardo e, soprattutto, del suo Boss. Nulla. Little è da solo, con amici. Però, che figata...a cena nello stesso ristorante di Little Steven!
Volevo il Frascati ma...viva il Montecompatri!
La cena è stata ottima, il locale delizioso e il personale molto cordiale.
Altri dettagli, via di uno stupendo spaghetto cacio e pepe e di un'amatriciana da urlo, non li ricordo, tale era lo stato di trance al pensiero che verosimilmente, di lì a poco, avrei conosciuto una leggenda del rock.
Però il nome del vino me lo sono segnato sul telefonino.
Avevo chiesto un Frascati Superiore ma il sommelier, figlio del titolare, è riuscito a rifilarmi un'altra etichetta con la sfacciata spontaneità che solo i romani e i napoletani riescono ad avere.
Però mi è andata bene, perché ho scoperto un grande vino bianco di una denominazione che non avevo ancora assaggiato: Montecompatri Doc Superiore "le Virtù Romane" 2008, Tenuta Le Quinte.
Accattivante blend di tutte le uve bianche tipiche del Lazio, dalla malvasia puntinata, al trebbiano, bellone e bonvino, si presenta al naso con fragranti profumi di pesca, caprifoglio, erba fresca e mandorle, sospinti da un delicato alito etereo molto seducente. Sensazioni che ritornano in bocca inserite in un corpo di grande freschezza e buona struttura, per un vino che invoglia fino all'ultimo sorso e si congeda con un appetitoso retrogusto fruttato e ammandorlato. In enoteca si trova a circa 10 euro, per una gradazione alcolica di 13,5%.
E Little Steven? Beh, addolcito dalla buona cena e sedotto dal vino romano, si è concesso per sigaretta e foto di rito, con tanto di battuta ironica quando gli abbiamo detto che l'indomani ci saremmo rivisti a Torino e, due giorni dopo ancora, a Udine.
"You're crazy, my friends!".
giovedì 23 settembre 2010
A spasso per la Bussia
Ventuno ettari in Monforte d'Alba, con vista sulle vigne di Prunotto poco più in basso e, a voltar lo sguardo verso la collina più in alto, sulla meravigliosa tenuta di Aldo Conterno, l'azienda Bussia Soprana è una delle rarissime realtà di quantità, oltre che di qualità, in terra di Barolo. Centomila bottiglie di Barolo l'anno, prodotte dalle uve delle vigne Colonnello, Mosconi, Gabutti e Bussia, e numeri da grande azienda anche per le varie Barbera, per il Dolcetto e il Langhe Rosso Zenit, da uve nebbiolo, barbera e cabernet sauvignon.
Proprio l'argomento del taglio è stato al centro di un acceso dibattito tra un compagno di visita in azienda e Silvano Casiraghi, imprenditore brianzolo dal 1992 titolare di Bussia Soprana.
Concedere che anche in un grande vino da monovitigno come il Barolo possa finire una piccola percentuale di altri vitigni finiti nel vigneto magari per errore del vivaista, poteva avere un senso una volta. Tutti si sentivano autorizzati a raccogliere e vinificare le uve tutte assieme. Oggi i disciplinari non consentono più nemmeno quel margine del 5%, che in molti casi magari raggiungeva pure tacitamente il 15-20%. "Come è successo a Montalcino con il sangiovese "tagliato" merlot", ci ricorda Silvano.
Oggi però, con i nuovi metodi elettronici di riconoscimento dell'uva nel vigneto, c'è poco da fare i furbi. O ci si adegua, o si rischia la gogna mediatica.
Ecco perché alcuni grandi come lo stesso Angelo Gaia a Barbaresco, hanno scelto di creare delle versioni langarole dei supertuscan, in cui vitigni locali e internazionali si fondono in prodotti invisi ai tradizionalisti ma di indubbia qualità.
La degustazione. Grandi Barolo ma che Barbera!
Quando versiamo e portiamo alla bocca un sorso di Barolo 2006, quello più giovane oggi in commercio, strabuzziamo gli occhi e Casiraghi ci anticipa:
"Bere oggi la 2006 è commettere un infanticidio". Proprio così. La sensazione evidente è proprio quella di aver commesso un delitto, come aver colto una mela acerba nel giardino dell'Eden. Ciò non toglie che è fin troppo evidente che si tratta di un vino di enorme potenzialità, e la fantasia vola a quando, tra qualche anno, i tannini si saranno evoluti e l'acidità si sarà ridotta fino a creare un ambiente ideale per valorizzare tutto l'infinito ventaglio di sensazioni gusto-olfattive tipiche del vitigno.
E stupisce trovarlo ancora giovane e in piena evoluzione a dieci anni dalla vendemmia. Anche la 2000, infatti, ci restituisce un vino un tantino scorbutico e spigolosetto, sebbene già di grande personalità.
La vera goduria comincia dalla 1998 a scendere. Dai 12-14 anni in avanti si può capire se un Barolo è degno del nome che porta. E i vari cru dell'azienda sono decisamente prodotti "a lungo termine". Potenti, strutturati, complessi ed eleganti, le migliori annate sono la 97-98-99, ma se abbiamo soldi e spazio in cantina la 2006 merita un investimento. Casiraghi giura che tra qualche anno sarà un vino fuori dal comune, figlio di una grande annata.
Noi ci fidiamo, ci lasciamo trasportare ad assaggiar l'uva matura tra i filari protetti da reti antigrandine garantite 15 anni, e ce ne torniamo in azienda per gli acquisti. Tutti si lanciano sul Barolo. Io no, con le poche finanze rimaste mi concedo qualche bottiglia della Barbera d'Alba Doc Mosconi 2007 bevuta a pranzo.
12 euro a bottiglia, è un magnifico esempio di come anche da queste parti di botti grandi e barriques la barbera possa venire da dio, anche se affinata solo in acciaio.
Unico neo della giornata, a parte le 50 euro buttate al ristorante, la visita cantina. Non pervenuta.
Proprio l'argomento del taglio è stato al centro di un acceso dibattito tra un compagno di visita in azienda e Silvano Casiraghi, imprenditore brianzolo dal 1992 titolare di Bussia Soprana.
Concedere che anche in un grande vino da monovitigno come il Barolo possa finire una piccola percentuale di altri vitigni finiti nel vigneto magari per errore del vivaista, poteva avere un senso una volta. Tutti si sentivano autorizzati a raccogliere e vinificare le uve tutte assieme. Oggi i disciplinari non consentono più nemmeno quel margine del 5%, che in molti casi magari raggiungeva pure tacitamente il 15-20%. "Come è successo a Montalcino con il sangiovese "tagliato" merlot", ci ricorda Silvano.
Oggi però, con i nuovi metodi elettronici di riconoscimento dell'uva nel vigneto, c'è poco da fare i furbi. O ci si adegua, o si rischia la gogna mediatica.
Ecco perché alcuni grandi come lo stesso Angelo Gaia a Barbaresco, hanno scelto di creare delle versioni langarole dei supertuscan, in cui vitigni locali e internazionali si fondono in prodotti invisi ai tradizionalisti ma di indubbia qualità.
La degustazione. Grandi Barolo ma che Barbera!
Quando versiamo e portiamo alla bocca un sorso di Barolo 2006, quello più giovane oggi in commercio, strabuzziamo gli occhi e Casiraghi ci anticipa:
"Bere oggi la 2006 è commettere un infanticidio". Proprio così. La sensazione evidente è proprio quella di aver commesso un delitto, come aver colto una mela acerba nel giardino dell'Eden. Ciò non toglie che è fin troppo evidente che si tratta di un vino di enorme potenzialità, e la fantasia vola a quando, tra qualche anno, i tannini si saranno evoluti e l'acidità si sarà ridotta fino a creare un ambiente ideale per valorizzare tutto l'infinito ventaglio di sensazioni gusto-olfattive tipiche del vitigno.
E stupisce trovarlo ancora giovane e in piena evoluzione a dieci anni dalla vendemmia. Anche la 2000, infatti, ci restituisce un vino un tantino scorbutico e spigolosetto, sebbene già di grande personalità.
La vera goduria comincia dalla 1998 a scendere. Dai 12-14 anni in avanti si può capire se un Barolo è degno del nome che porta. E i vari cru dell'azienda sono decisamente prodotti "a lungo termine". Potenti, strutturati, complessi ed eleganti, le migliori annate sono la 97-98-99, ma se abbiamo soldi e spazio in cantina la 2006 merita un investimento. Casiraghi giura che tra qualche anno sarà un vino fuori dal comune, figlio di una grande annata.
Noi ci fidiamo, ci lasciamo trasportare ad assaggiar l'uva matura tra i filari protetti da reti antigrandine garantite 15 anni, e ce ne torniamo in azienda per gli acquisti. Tutti si lanciano sul Barolo. Io no, con le poche finanze rimaste mi concedo qualche bottiglia della Barbera d'Alba Doc Mosconi 2007 bevuta a pranzo.
12 euro a bottiglia, è un magnifico esempio di come anche da queste parti di botti grandi e barriques la barbera possa venire da dio, anche se affinata solo in acciaio.
Unico neo della giornata, a parte le 50 euro buttate al ristorante, la visita cantina. Non pervenuta.
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venerdì 13 agosto 2010
Puledro morellino
Se sul vitigno non ci sono dubbi, visto che sempre del toscanissimo sangiovese si tratta (della varietà "piccolo", mentre a Montepulciano e Montalcino va il "grosso"), sull'origine del nome ancora si discute. Morellino come il colore del vino, rosso rubino scuro (un po' come è accaduto per il Brunello), oppure Morellino come la razza dei cavalli montati dai butteri, i cowboys maremmani? Nel dubbio, io ho abbinato il rosso di Scansano, prodotto nell'entroterra grossetano tra i fiumi Albegna e Ombrone, con del filetto di puledro alla griglia.
Un maremmano schietto e loquace
Prodotto dalla Cantina Coop. Vignaioli del Morellino di Scansano, storica cantina sociale nata nel 1978 assieme alla Doc (dal 2007 Docg) e oggi composta da circa 152 soci conferitori, questo figlio della vendemmia 2008 ha colore rosso rubino molto limpido e brillante, con riflessi scuri e discreta consistenza.
Servito in un calice di media ampiezza a 15-16°C, conquista subito con gli aromi varietali del vitigno, che rimandano alle marasche e ai piccoli frutti di bosco, su tutti il ribes, accompagnati da sfumature terrose e di rosa canina e da un'accattivante nota speziata.
In bocca è fresco, il tannino scivola sul palato senza graffiare, accompagnato da tutte le piacevoli sensazioni percepite al naso: frutta rossa, pepe nero e alla fine la piacevole sensazione di rigirarsi tra la lingua il succulento nocciolo di un'amarena matura.
Invita alla beva e invoglia a mangiare. Perfetto con le carni alla brace e con le "casciotte" di pecora fresche o mediamente stagionate tipiche dell'Italia centrale, io la mia mezza bottiglia (3,90 € al Bennet di Lecco) l'ho onorata con del filetto di puledro al sangue. Un po' troppo dolciastra per questo vino "da costata fiorentina" ma comunque binomio assolutamente più che dignitoso.
Un maremmano schietto e loquace
Prodotto dalla Cantina Coop. Vignaioli del Morellino di Scansano, storica cantina sociale nata nel 1978 assieme alla Doc (dal 2007 Docg) e oggi composta da circa 152 soci conferitori, questo figlio della vendemmia 2008 ha colore rosso rubino molto limpido e brillante, con riflessi scuri e discreta consistenza.
Servito in un calice di media ampiezza a 15-16°C, conquista subito con gli aromi varietali del vitigno, che rimandano alle marasche e ai piccoli frutti di bosco, su tutti il ribes, accompagnati da sfumature terrose e di rosa canina e da un'accattivante nota speziata.
In bocca è fresco, il tannino scivola sul palato senza graffiare, accompagnato da tutte le piacevoli sensazioni percepite al naso: frutta rossa, pepe nero e alla fine la piacevole sensazione di rigirarsi tra la lingua il succulento nocciolo di un'amarena matura.
Invita alla beva e invoglia a mangiare. Perfetto con le carni alla brace e con le "casciotte" di pecora fresche o mediamente stagionate tipiche dell'Italia centrale, io la mia mezza bottiglia (3,90 € al Bennet di Lecco) l'ho onorata con del filetto di puledro al sangue. Un po' troppo dolciastra per questo vino "da costata fiorentina" ma comunque binomio assolutamente più che dignitoso.
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venerdì 26 marzo 2010
Vini Pellegrini: appunti da Villa Cavenago (2a parte)
Veniamo ai bianchi e cominciamo dal nostro vicino di casa, ovvero da quel Solesta, particolare blend di chardonnay, riesling e manzoni bianco, che nasce dai vigneti terrazzati dell'azienda La Costa di Montevecchia, prezioso angolo di Toscana sospeso tra Lecco, l'Adda e Milano.
Fermentato in massima parte in vasche d'acciaio con una piccola percentuale che passa invece per la botte grande, il vino viene poi affinato parte in barrique e parte in vasche di cemento; dopodiché un ulteriore anno di permanenza in bottiglia completa la sua maturazione.
Quando a Claudia Crippa, giovane figlia del titolare Giordano, chiedo notizie dei nuovi scassi e terrazzamenti che l'autunno scorso, di passaggio per una scampagnata a funghi, ho notato sulle colline nei pressi delle tre cascine - Costa, Scarpata e Galbusera Nera - di proprietà dell'azienda, lei si schermisce promettendo: "sì però ora basta, con questi arriviamo a 12 ettari e per una piccola realtà come la nostra sono già più che sufficienti".
Per poi tornare al vino: "com'è, ti piace?".
Piace, piace eccome. Fresco e floreale, parte di slancio con la frutta gialla dello chardonnay per poi rendere il giusto merito anche all'eredità del riesling, percepibile in fini note muschiate e di pietra focaia. La barrique c'è ma non appesantisce una beva che tiene bene e si fa via via più intrigante assaggio dopo assaggio. Da servire fresco ma non freddo, magari in compagnia di un risotto alle verdure oppure con un piatto di formaggi a pasta morbida tipici di Montevecchia o anche con un Quartirolo o un Taleggio della vicina Valsassina.
Del Pinot Nero Sangiobbe, per il quale l'azienda ha profuso i suoi sforzi maggiori in questi anni cercando la migliore collocazione dei vigneti e affinando le più efficaci tecniche di lavorazione in cantina, ne parleremo in seguito.
Ora andiamo in Sardegna ad assaggiare il Vermentino dell'azienda 6 Mura, ultima arrivata in casa Pellegrini.
VERMENTINO DI GALLURA O DI SARDEGNA?
Assieme al titolare del ristorante dove lavoro eravamo alla ricerca di un Vermentino di Gallura, quindi DOCG, buono, tipico e meno conosciuto dei vari Sella e Mosca e simili.
Lo abbiamo detto al simpatico mescitore sardo e lui ci ha proposto un indovinello:
"ve ne faccio assaggiare due e voi dovete indovinare quale è il Doc di Sardegna e quale il Docg".
Mica facile, entrambi eccellenti. Mi butto su quello più strutturato.
"Il Gallura è lui".
"Giusto. Ma anche quell'altro. Cambiano solo le annate".
Fresco, sapido e floreale, secco come il vento carico di salsedine che batte le vigne del nord dell'Isola e ricco delle dolceamare sfumature mediterranee che gli regalano un carattere inconfondibile. Peccato per la pessima grafica dell'etichetta ma pace. Avevamo trovato il nostro Vermentino.
continua...
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martedì 16 marzo 2010
Grande degustazione di Vini Pellegrini: appunti da Villa Cavenago (1a parte)
Cielo blu terso e un ottimo afflusso di visitatori, per la maggior parte ristoratori e qualche giornalista affamato, hanno accompagnato il primo della due giorni di degustazioni (8-9 marzo) nei saloni patrizi di Villa Cavenago a Trezzo d'Adda, sede del grande banco d'assaggio organizzato da Pellegrini Spa per promuovere tutte le etichette italiane ed estere del suo corposo listino.
Presenti molti dei produttori, disponibili alla chiacchiera come nemmeno al Vinitaly e davvero notevole lo spazio dedicato ai distillati, dal quale tuttavia ho deciso a malincuore di restare fuori per motivi squisitamente etilometrici.
Abbandonato dopo due sorsi il rigoroso ordine di degustazione spumanti-bianchi-rossi-passiti, ho assaggiati tanti, forse troppi, vini senza ordine logico e senza cedere, come al solito, all'uso della sputacchiera. Non mi ci abituerò mai, che vi devo dire. Mi par di mancar di rispetto ai produttori. Questa, almeno, è la scusa.
Vale la pena però rimettere ordine alle idee e indicare qualche etichetta che mi ha davvero ben impressionato. Partiamo, quindi, dall'aperitivo.
Vai col Prosecco. Conegliano e Valdobbiadene, naturalmente, freschissime di DOCG.
La maliziosamente simpaticissima Cinzia Canzian, pierre dell'azienda 100% femminile Le vigne di Alice, ci conduce in un assaggio "dal morbido al duro" attraverso la piacevole cremosa beva dell'Extra Dry fino alla stuzzicante secchezza del Brut Doro e all'eleganza del tradizionale Brut Tajad, figlio, appunto di un taglio delle storiche uve bianche locali verdiso, prosecco, boschera e bianchetta.
Tre spumanti dal look raffinato e di qualità eccellente, con un buon rapporto qualità-prezzo e fatti da donne (Alice è la defunta nonna). Che vogliamo di più come aperitivo o come tutto pasto leggero in una bella giornata di sole primaverile?
continua...
Presenti molti dei produttori, disponibili alla chiacchiera come nemmeno al Vinitaly e davvero notevole lo spazio dedicato ai distillati, dal quale tuttavia ho deciso a malincuore di restare fuori per motivi squisitamente etilometrici.
Abbandonato dopo due sorsi il rigoroso ordine di degustazione spumanti-bianchi-rossi-passiti, ho assaggiati tanti, forse troppi, vini senza ordine logico e senza cedere, come al solito, all'uso della sputacchiera. Non mi ci abituerò mai, che vi devo dire. Mi par di mancar di rispetto ai produttori. Questa, almeno, è la scusa.
Vale la pena però rimettere ordine alle idee e indicare qualche etichetta che mi ha davvero ben impressionato. Partiamo, quindi, dall'aperitivo.
Vai col Prosecco. Conegliano e Valdobbiadene, naturalmente, freschissime di DOCG.
La maliziosamente simpaticissima Cinzia Canzian, pierre dell'azienda 100% femminile Le vigne di Alice, ci conduce in un assaggio "dal morbido al duro" attraverso la piacevole cremosa beva dell'Extra Dry fino alla stuzzicante secchezza del Brut Doro e all'eleganza del tradizionale Brut Tajad, figlio, appunto di un taglio delle storiche uve bianche locali verdiso, prosecco, boschera e bianchetta.
Tre spumanti dal look raffinato e di qualità eccellente, con un buon rapporto qualità-prezzo e fatti da donne (Alice è la defunta nonna). Che vogliamo di più come aperitivo o come tutto pasto leggero in una bella giornata di sole primaverile?
continua...
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sabato 13 febbraio 2010
Vernaccia che buona!
Con quella desinenza quasi dispregiativa che spesso la lingua toscana regala invece ai luoghi e ai prodotti più cari della sua terra, la Vernaccia di San Gimignano è senza alcun dubbio il vino bianco più prestigioso non solo del senese ma di tutta la terra dei Medici. Non a caso è stato in assoluto il primo vino italiano ad ottenere la Docg. Correva il 1966. Bianco fresco, sapido e di buona struttura, con tipico finale amarognolo, affinato in acciaio o in barrique, nelle sue espressioni più auliche può ambire a un posto nel ristrettissimo olimpo dei bianchi italiani da invecchiamento. Alla pari dei migliori Trebbiano, Verdicchio e Fiano d'Avellino, per intenderci.
Giusto ieri sera ho assaggiato la Vernaccia di San Gimignano 2006 Riserva dell'azienda agricola La Lastra, di proprietà di Renato Spanu che, con mio deciso stupore, ho visto che è assente dalla Duemilavini. Strano perché, rispetto alle diverse Vernaccie assaggiate in passato questa ha decisamente tutt'altra stoffa, tutt'altro lignaggio. Meriterebbe senza dubbio maggiore visibilità.
Affinato metà in barrique, metà in acciaio, il vino sosta 12 mesi in bottiglia prima di essere messo in commercio. A distanza di tre anni e mezzo dalla vendemmia, fa sfoggio di un bel colore giallo paglierino brillante con accesi riflessi dorati. Naso intenso di zagare, fiori d'acacia, agrumi maturi, liquerizia dolce, boisé e giusto un pizzico di zafferano, con un'imperante mineralità che troviamo anche in bocca e ci fa salivare portandoci a un nuovo assaggio. Non infinita ma comunque soddisfacente la persistenza.
Impegnativo per il mio aperitivo, libidine pura solo a immaginarselo servito a 11-12°C assieme a un bel tagliolino con l'astice oppure con un coniglio arrosto o con un piatto di formaggi di pecora toscani. Prezzo in enoteca, circa 15 euro.
P.S. curiosità: per analogie storico-territoriali e organolettiche la Vernaccia viene spesso messa a confronto con i bianchi dell'alta valle del Rodano, AOC Hermitage e Saint-Péray, da uve marsanne e roussanne.
Giusto ieri sera ho assaggiato la Vernaccia di San Gimignano 2006 Riserva dell'azienda agricola La Lastra, di proprietà di Renato Spanu che, con mio deciso stupore, ho visto che è assente dalla Duemilavini. Strano perché, rispetto alle diverse Vernaccie assaggiate in passato questa ha decisamente tutt'altra stoffa, tutt'altro lignaggio. Meriterebbe senza dubbio maggiore visibilità.
Affinato metà in barrique, metà in acciaio, il vino sosta 12 mesi in bottiglia prima di essere messo in commercio. A distanza di tre anni e mezzo dalla vendemmia, fa sfoggio di un bel colore giallo paglierino brillante con accesi riflessi dorati. Naso intenso di zagare, fiori d'acacia, agrumi maturi, liquerizia dolce, boisé e giusto un pizzico di zafferano, con un'imperante mineralità che troviamo anche in bocca e ci fa salivare portandoci a un nuovo assaggio. Non infinita ma comunque soddisfacente la persistenza.
Impegnativo per il mio aperitivo, libidine pura solo a immaginarselo servito a 11-12°C assieme a un bel tagliolino con l'astice oppure con un coniglio arrosto o con un piatto di formaggi di pecora toscani. Prezzo in enoteca, circa 15 euro.
P.S. curiosità: per analogie storico-territoriali e organolettiche la Vernaccia viene spesso messa a confronto con i bianchi dell'alta valle del Rodano, AOC Hermitage e Saint-Péray, da uve marsanne e roussanne.
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