Dispiace per il tempo cupo e piovoso assai, altrimenti si sarebbe potuta fare qualche bella foto primaverile delle terrazze vitate sopra Sondrio, quelle della sottozona Sassella. E magari inserire nella cornice i monti circostanti ancora carichi della neve caduta quest'inverno, finalmente copiosa più per la felicità delle località sciistiche che di quella dei glaciologhi, ormai rassegnati all'innesorabile arretramento dei ghiacciai alpini. Ma non si può aver tutto. Il Nebbiolo Grapes 2009 è ben valso la scampagnata in Valtellina. Tra andata e ritorno, 200 km di Statale martoriata dal maltempo e dal traffico pesante.
Dovendo purtroppo fare i conti con il bisogno vitale di conservare la patente e con la mia assoluta incapacità di servirmi delle sputacchiere, la giornata a tu per tu con 200 etichette di Nebbiolo di tutto il mondo ha imposto delle scelte obbligate. Assaggi mirati alle aziende meno note di Valtellina e Piemonte, luoghi d'elezione di questa prodigiosa uva italiana, e grande curiosità per i loro fratellini sparsi qua e là tra Australia, Sud Africa e California. Risultato: forse il nebbiolo, con la pazienza e la dedizione che si conviene ai grandi vecchi, è capace davvero di imparare a parlare l'inglese. L'inflessione californiana è quella che gli riesce meglio.
Il Nebbiolo della South-Central Coast
Le luccicano gli occhi a Stephy Terrizzi, la giovane titolare della californiana Giornata Wines, mentre sull'avveniristico cellulare (vive a Paso Robles, 133 miglia a sud della Silicon Valley!) del marito Brian mi mostra i loro due biondissimi gemellini che mangiano a piene mani i dolcissimi grappoli maturi del nebbiolo di famiglia. Il paesaggio ricorda a tratti quello della Maremma del Morellino, se non fosse per gli inquietanti primi piani sulle pelose tarantole grosse come una mano che bazzicano tra i sassi bianchi dei vigneti. Megalomani pure con gli aracnidi, 'sti americani.
E pure avventurosi fino a sconfinare nell'irriverenza, quando scopri che, a differenza della stragrande maggioranza dei produttori californiani, i coniugi Terrizzi hanno snobbato zinfandel, cabernet, merlot e pinot nero per impiantare invece barbatelle di nebbiolo e sangiovese, i due vitigni di cui noi italiani siamo più fieri e gelosi. E poi pure il moscato giallo, con cui fanno una sorta di delizioso Vin Santo.
Poi, invece, ci parli assieme e scopri una spontaneità, un'umiltà e una passione assolutamente contagiose, che sono il migliore risarcimento per il dolore di tutte quelle famiglie di coloni che nei secoli hanno inseguito il miraggio della Terra Promessa, finendo spesso con il lasciare le loro ossa a sbiancare lungo le piste per la California.
Confida Stephy "In questa zona la terra costa molto meno che in Napa. E poi noi siamo pazzamente innamorati dell'Italia e dei suoi vini".
Del loro Nebbiolo 2006 ne hanno fatte solo un migliaio di bottiglie. Un vino, di conseguenza, assolutamente sperimentale. Ma, vi assicuro, durante gli assaggi è riuscito a conquistare gli elogi anche del più accanito barolista. Riconoscibile, corpulento ed elegante, con un tocco ben dosato di morbidezza all'americana ma per nulla prevaricante sul carattere indomito del vitigno.
Nicola Taffuri
domenica 29 marzo 2009
venerdì 20 marzo 2009
Un Syrah da prendere al volo
Tra gli scaffali del supermercato alcuni nomi sono una garanzia. Prendiamo ad esempio la linea GDO di Feudo Arancio, composta da Chardonnay, Grillo, Inzolia, Merlot, Nero d'Avola, Cabernet Sauvignon e Syrah. Ovvero tutta la moderna tipicità della Sicilia del vino, dove accanto alle grandi uve della tradizione troviamo alcuni dei più grandi vitigni internazionali che in Trinacria si sono ambientati talmente bene da aver ormai ottenuto la cittadinanza onoraria.
Penso, ad esempio, al Syrah 2007 che ho stappato giusto ieri.
Rubino scuro, intenso e consistente, ha profumi intensi assolutamente accattivanti di more fresche e confettura di mirtilli, in un'amalgama di liquerizia e spezie davvero molto invitante in cui si fa timidamente strada anche una leggera nota erbacea. Caldo, morbido e corposo in bocca, vanta ancora una buona acidità e un tannino levigato e per nulla aggressivo.
Del resto non è stato fatto per essere messo in cantina in attesa di chissà quale affinamento. E' nato per essere bevuto giovane, entro 2-3 anni dalla vendemmia.
Cosa possiamo pretendere di più da un vino che costa appena cinque euro o giù di lì e che regge alla grande accostamenti con piatti di buona struttura come risotti con salsiccia, carni alla brace e formaggi piccanti?
Nicola Taffuri
Penso, ad esempio, al Syrah 2007 che ho stappato giusto ieri.
Rubino scuro, intenso e consistente, ha profumi intensi assolutamente accattivanti di more fresche e confettura di mirtilli, in un'amalgama di liquerizia e spezie davvero molto invitante in cui si fa timidamente strada anche una leggera nota erbacea. Caldo, morbido e corposo in bocca, vanta ancora una buona acidità e un tannino levigato e per nulla aggressivo.
Del resto non è stato fatto per essere messo in cantina in attesa di chissà quale affinamento. E' nato per essere bevuto giovane, entro 2-3 anni dalla vendemmia.
Cosa possiamo pretendere di più da un vino che costa appena cinque euro o giù di lì e che regge alla grande accostamenti con piatti di buona struttura come risotti con salsiccia, carni alla brace e formaggi piccanti?
Nicola Taffuri
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mercoledì 18 marzo 2009
Globalizzazione fuori moda
Ormai siamo agli sgoccioli con il corso Ais. A fine aprile mega-esamone generale e poi via, tutti a 'mbriacarsi in giro x il mondo. Un mondo di colori, carnagioni, lacrime amare e sorrisi brillantati, volti rugosi cotti dal sole, lifting e paillettes, unghie sporche di terra, cantine fantascientifiche e piccoli laboratori alchimistici. Un universo di colori, profumi e sapori che alle volte, alle latitudini più disparate, ci fa esclamare "Quant'è piccolo il mondo!". Da anni ormai il miglior Sauvignon non è più quello della Loira ma quello neozelandese, così come il Syrah australiano le suona tranquillamente a quelli dell'alta valle del Rodano e di tagli bordolesi capaci di stare al passo con un buon Bordeaux ne è pieno il Pianeta, da Bolgheri alla California. Così come in Cile possiamo bere una buona Bonarda e qualcuno, in altri continenti, comincia pure a cimentarsi con il mitico nebbiolo, il più grande vitigno italiano, fino a pochi anni fa escluso dagli interessi degli investitori esteri.
Globalizzazione? Forse. Ma, se ci pensiamo bene, la tendenza globalizzatrice non ha sempre fatto parte della storia della civiltà? Da quando esistono i commerci le società si sono sempre scambiate prodotti di ogni genere, agricoli, manifatturieri e persino "merce umana". Il riso ce l'hanno portato mille anni fa gli Arabi assieme allo zafferano (--> az-za-faran), così come il pomodoro, il mais e la patata , i peperoni e le melanzane sono gentile omaggio degli indios d'America, il grano è originario della Cina, mentre gran parte della frutta così come ogni vitigno di vitis vinifera sativa, quella commestibile e adatta per fare il vino, proviene dall'Asia Minore. E questo solo per citare gli esempi più clamorosi di questo tipo di antica globalizzazione che ha salvato nel corso dei secoli miliardi di persone dalla carestia e dalla denutrizione. In tempi più recenti il commercio globale ha pure consentito a storiche economie locali non solo di sopravvivere, ma anche di trarre grandi profitti vendendo altrove prodotti di alta qualità che altrimenti sarebbero rimasti confinati in un anonimato ad uso e consumo della gente del posto. Penso alla Valtellina e alla sua Bresaola fatta interamente con manzi provenienti da Brasile e Argentina, così come il grano saraceno dei pizzoccheri e degli sciatt viene oggi importato dalla Cina, peraltro sua vera terra d'origine.
La globalizzazione ha cominciato ad assumere una connotazione negativa con l'inarrestabile intensificazione dei traffici aerei e con l'imposizione sul mercato di poche cultivar geneticamente modificate e rinforzate chimicamente da parte delle multinazionali alimentari, chimiche e farmaceutiche. E' a quel punto che il millenario scambio di merci ed esperienze è deragliato su un campo minato, andando dietro alla perversa tirannide del mercato globale ma dimenticando le sacre leggi della Natura e dei suoi tempi. In nome di un mercato vorace e impaziente e delle sue spietate strategie di marketing, la nuova globalizzazione non porta più ricchezza ma impoverisce ciò che abbiamo di più prezioso: la VARIETA'. Inaridisce la biodiversità premiando pochissime specie vegetali e animali superresistenti e superproduttive, e allo stesso tempo devasta le economie locali asservite alla produzione di monocolture da destinare agli insaziabili mercati occidentali. A noi. La forma mentis di chi favorisce tutto ciò è la stessa di chi vorrebbe che ognuno parlasse la stessa lingua e predicasse la medesima religione, prendesse gli stessi medicinali e guardasse gli stessi programmi televisivi. In nome del profitto e del consenso, ci dimentichiamo che quello che ci ha salvato dall'estinzione è stata proprio la ricchezza e la varietà, di razza e di cultura, anche alimentare. La salvezza non può passare che da un rinnovato rispetto dei cicli stagionali e delle economie locali, cercando di portare in tavola sempre e comunque i prodotti del territorio provenienti da aziende di piccole o medie dimensioni. Quelle che non sono soggette alla tirannide delle multinazionali finanziarie. Slowfood lo dice da più di vent'anni e ha fondato pure una rete internazionale che si chiama Terramadre. Oggi finalmente pare che essere "bio" e "local" sia diventato trendy e il consumatore stia interessandosi anche a questa nuova moda, una volta tanto virtuosa. A dimostrazione di ciò vale la pena segnalare il fenomeno dei numerosi Gruppi di Acquisto Solidale (GAS) che stanno sorgendo in tutta Italia.
Nicola Taffuri
Globalizzazione? Forse. Ma, se ci pensiamo bene, la tendenza globalizzatrice non ha sempre fatto parte della storia della civiltà? Da quando esistono i commerci le società si sono sempre scambiate prodotti di ogni genere, agricoli, manifatturieri e persino "merce umana". Il riso ce l'hanno portato mille anni fa gli Arabi assieme allo zafferano (--> az-za-faran), così come il pomodoro, il mais e la patata , i peperoni e le melanzane sono gentile omaggio degli indios d'America, il grano è originario della Cina, mentre gran parte della frutta così come ogni vitigno di vitis vinifera sativa, quella commestibile e adatta per fare il vino, proviene dall'Asia Minore. E questo solo per citare gli esempi più clamorosi di questo tipo di antica globalizzazione che ha salvato nel corso dei secoli miliardi di persone dalla carestia e dalla denutrizione. In tempi più recenti il commercio globale ha pure consentito a storiche economie locali non solo di sopravvivere, ma anche di trarre grandi profitti vendendo altrove prodotti di alta qualità che altrimenti sarebbero rimasti confinati in un anonimato ad uso e consumo della gente del posto. Penso alla Valtellina e alla sua Bresaola fatta interamente con manzi provenienti da Brasile e Argentina, così come il grano saraceno dei pizzoccheri e degli sciatt viene oggi importato dalla Cina, peraltro sua vera terra d'origine.
La globalizzazione ha cominciato ad assumere una connotazione negativa con l'inarrestabile intensificazione dei traffici aerei e con l'imposizione sul mercato di poche cultivar geneticamente modificate e rinforzate chimicamente da parte delle multinazionali alimentari, chimiche e farmaceutiche. E' a quel punto che il millenario scambio di merci ed esperienze è deragliato su un campo minato, andando dietro alla perversa tirannide del mercato globale ma dimenticando le sacre leggi della Natura e dei suoi tempi. In nome di un mercato vorace e impaziente e delle sue spietate strategie di marketing, la nuova globalizzazione non porta più ricchezza ma impoverisce ciò che abbiamo di più prezioso: la VARIETA'. Inaridisce la biodiversità premiando pochissime specie vegetali e animali superresistenti e superproduttive, e allo stesso tempo devasta le economie locali asservite alla produzione di monocolture da destinare agli insaziabili mercati occidentali. A noi. La forma mentis di chi favorisce tutto ciò è la stessa di chi vorrebbe che ognuno parlasse la stessa lingua e predicasse la medesima religione, prendesse gli stessi medicinali e guardasse gli stessi programmi televisivi. In nome del profitto e del consenso, ci dimentichiamo che quello che ci ha salvato dall'estinzione è stata proprio la ricchezza e la varietà, di razza e di cultura, anche alimentare. La salvezza non può passare che da un rinnovato rispetto dei cicli stagionali e delle economie locali, cercando di portare in tavola sempre e comunque i prodotti del territorio provenienti da aziende di piccole o medie dimensioni. Quelle che non sono soggette alla tirannide delle multinazionali finanziarie. Slowfood lo dice da più di vent'anni e ha fondato pure una rete internazionale che si chiama Terramadre. Oggi finalmente pare che essere "bio" e "local" sia diventato trendy e il consumatore stia interessandosi anche a questa nuova moda, una volta tanto virtuosa. A dimostrazione di ciò vale la pena segnalare il fenomeno dei numerosi Gruppi di Acquisto Solidale (GAS) che stanno sorgendo in tutta Italia.
Nicola Taffuri
mercoledì 11 marzo 2009
Mini corso online sui vini biologici
Quello dell'agricoltura biologica è un comparto destinato a crescere in maniera esponenziale nei prossimi anni, forte della comune riscoperta dei prodotti genuini stagionali e, soprattutto, del ritardo accumulato in Italia rispetto al resto del mondo occidentale. E' ora che anche noi ci si dia una mossa, anche a livello promozionale. Per capirne qualcosa in più in maniera semplice ed esaustiva vale la pena partire proprio dalla filiera vitivinicola, particolarmente interessata dal fenomeno bio. Sul sito ilVinoBiologico.it è appena cominciato un breve corso on line dedicato proprio ai vini biologici. Cliccando qui possiamo scaricarne l'interessante introduzione. E procedere poi alle puntate successive che ci faranno capire perché il biologico fa bene alla salute, al territorio, all'economia locale e, di riflesso, a quella nazionale. Per poter accedere al download occorre prima iscriversi alla newsletter. Il sito ha anche un blog sempre aggiornato e un gruppo su Facebook.
N.T.
N.T.
lunedì 9 marzo 2009
La Ribona, strepitoso bianco marchigiano
A mio modesto parere la ribona è uno dei migliori vitigni a bacca bianca d'Italia. Del resto non stiamo parlando di un'uva nota solo a pochi fanatici estimatori dell'"autoctono a tutti i costi", bensì di un vitigno che i più recenti studi sul dna della vite hanno riconosciuto come parente stretto dell'illustre verdicchio. Pare appurato si tratti infatti della varietà maceratese dell'uva tipica dei Castelli di Jesi e della zona di Matelica. Non a caso la ribona è meglio conosciuta come maceratino.
Io che amo il Verdicchio in tutte le sue forme e declinazioni, compreso quel Lugana fatto con il verdicchio che sul Garda prende il nome di trebbiano di Lugana, mi sono appassionato alla Ribona al primo assaggio. Vinitaly 2008, stand dell'azienda Boccadigabbia.
Colli Maceratesi Doc Ribona "Le Grane" 2007
Se negli ultimi anni la Ribona sta riuscendo a guadagnare spazi sempre maggiori nel vigneto maceratese, lo si deve anche a produttori seri e onesti come Elvidio Alessandri, che studiano ogni minimo dettaglio nella produzione dei loro vini, mettendo il vitigno giusto al posto giusto e adottando in cantina le pratiche più adatte per valorizzare le grandi uve del territorio, siano esse internazionali o autoctone.
Prendiamo la Ribona "Le Grane", che potremmo impropriamente definire una sorta di "ripasso" della versione classica del bianco maceratese. Finita la prima fermentazione, al vino si aggiungono nuove uve da vendemmia tardiva, dando inizio a una seconda fermentazione che conferisce nuova concentrazione e bouquet aromatico. Proprio per preservare la ricchezza degli aromi tipici del vitigno non si usa la barrigue, e infatti il vino presenta una deliziosa concentrazione di note di frutta gialla matura mai dolciastre o "stucchevolmente vanigliose".
In bocca ha un meraviglioso nerbo fresco, morbido e sapido, e restituisce tutte le deliziose sensazioni fruttate olfattive con l'aggiunta di un piacevole retrogusto amaricante che non fa che confermare la sua illustre discendenza dal Verdicchio.
Di ribona e maceratino ne sentiremo certo parlare nei prossimi anni. Nel frattempo andiamo a conoscerla di persona, magari già al prossimo Vinitaly.
Nicola Taffuri
*Dello stesso produttore:
"Akronte" 2004
"Saltapicchio" 2005
Io che amo il Verdicchio in tutte le sue forme e declinazioni, compreso quel Lugana fatto con il verdicchio che sul Garda prende il nome di trebbiano di Lugana, mi sono appassionato alla Ribona al primo assaggio. Vinitaly 2008, stand dell'azienda Boccadigabbia.
Colli Maceratesi Doc Ribona "Le Grane" 2007
Se negli ultimi anni la Ribona sta riuscendo a guadagnare spazi sempre maggiori nel vigneto maceratese, lo si deve anche a produttori seri e onesti come Elvidio Alessandri, che studiano ogni minimo dettaglio nella produzione dei loro vini, mettendo il vitigno giusto al posto giusto e adottando in cantina le pratiche più adatte per valorizzare le grandi uve del territorio, siano esse internazionali o autoctone.
Prendiamo la Ribona "Le Grane", che potremmo impropriamente definire una sorta di "ripasso" della versione classica del bianco maceratese. Finita la prima fermentazione, al vino si aggiungono nuove uve da vendemmia tardiva, dando inizio a una seconda fermentazione che conferisce nuova concentrazione e bouquet aromatico. Proprio per preservare la ricchezza degli aromi tipici del vitigno non si usa la barrigue, e infatti il vino presenta una deliziosa concentrazione di note di frutta gialla matura mai dolciastre o "stucchevolmente vanigliose".
In bocca ha un meraviglioso nerbo fresco, morbido e sapido, e restituisce tutte le deliziose sensazioni fruttate olfattive con l'aggiunta di un piacevole retrogusto amaricante che non fa che confermare la sua illustre discendenza dal Verdicchio.
Di ribona e maceratino ne sentiremo certo parlare nei prossimi anni. Nel frattempo andiamo a conoscerla di persona, magari già al prossimo Vinitaly.
Nicola Taffuri
*Dello stesso produttore:
"Akronte" 2004
"Saltapicchio" 2005
lunedì 2 marzo 2009
Lo Champagne del Monte Orfano
Premetto subito che non sono un appassionato delle bollicine in bianco. In questi anni ho assaggiato, spesso a scopo didattico, tanti spumanti italiani e stranieri, metodo classico e charmat. Tuttavia continuo a preferire i bianchi fermi, anche come aperitivo. Chissà, magari è solo questione di affinare ulteriormente il gusto. Messe le mani avanti, posso comunque dire di essere ormai in grado di riconoscere quando uno spumante ha una marcia in più rispetto a quanto si è soliti trovare sui banchi d'assaggio di eventi enogastronomici troppo spesso autoreferenziali e ruffiani verso le mode del gusto. Parlando di Franciacorta Docg, le bollicine della piccola azienda agricola Faccoli, di Coccaglio (Bs) rappresentano certamente uno di quei tesori nascosti che ancora sfuggono alle mappe suggerite dalle guide blasonate. Ai fratelli Claudio e Marco, figli di quel Lorenzo Faccoli che fondò l'azienda nei primi anni Sessanta, basta il passaparola delle persone che capitano nella loro cantina e tornano a casa con il sorriso di chi ha trovato un tesoro e lo vuole condividere con gli amici.
Sabato scorso sono stati proprio una coppia di miei amici, in apertura di cena, a far saltare il tappo all'Extra Brut, una cuvée di chardonnay (70%), pinot bianco e pinot nero, coltivate sulla media collina del Monte Orfano, ultima propaggine morenica a sud-ovest della Franciacorta. Erano convinti che avrei apprezzato. Ho apprezzato, e tanto.
Franciacorta Docg Extra Brut - Az.Agr. Faccoli Lorenzo
Schiuma sontuosa, perlage finissimo e pressocché infinito, profumi intensi e fragranti di lievito di pane, agrumi freschi e lavanda. La straordinaria freschezza agrumata sospinta dalle bollicine solletica il palato e ci fa aprire gli occhi dallo stupore. Per poi socchiuderli al secondo sorso e volare con il pensiero alla valle della Marna in una psichedelia del gusto di rara persistenza. Per questo raffinatissimo Metodo Classico italiano gli abusati paragoni con lo Champagne sono quanto mai appropriati.
Nicola Taffuri
Sabato scorso sono stati proprio una coppia di miei amici, in apertura di cena, a far saltare il tappo all'Extra Brut, una cuvée di chardonnay (70%), pinot bianco e pinot nero, coltivate sulla media collina del Monte Orfano, ultima propaggine morenica a sud-ovest della Franciacorta. Erano convinti che avrei apprezzato. Ho apprezzato, e tanto.
Franciacorta Docg Extra Brut - Az.Agr. Faccoli Lorenzo
Schiuma sontuosa, perlage finissimo e pressocché infinito, profumi intensi e fragranti di lievito di pane, agrumi freschi e lavanda. La straordinaria freschezza agrumata sospinta dalle bollicine solletica il palato e ci fa aprire gli occhi dallo stupore. Per poi socchiuderli al secondo sorso e volare con il pensiero alla valle della Marna in una psichedelia del gusto di rara persistenza. Per questo raffinatissimo Metodo Classico italiano gli abusati paragoni con lo Champagne sono quanto mai appropriati.
Nicola Taffuri
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