Non sarà più il "vin de Milàn" che aveva assaggiato Mario Soldati nei suoi viaggi enogastronomici che negli anni '60 lo avevano portato fino alle ultime propaggini dei depositi morenici del lecchese. Ma il vino di Montevecchia, nelle sue fedeli e molteplici reinterpretazioni seguite alla riscoperta della viticoltura in questo angolo di Toscana in terra brianzola, è sempre un buon pretesto per una visita al territorio.
Da oltre 15 anni il progetto vinicolo più ambizioso è quello dell'azienda La Costa, proprietaria di diverse cascine ristrutturate su e giù tra ordinati filari di ogni età e maestosi e profumatissimi cespugli di rosmarino. Elena Crippa, classe 1976, porta avanti con passione il sogno cominciato da suo padre, imprenditore milanese dai natali brianzoli, di tornare sui luoghi dell'infanzia e rimettere ordine a quelle colline dimenticate dai forestieri.
A spasso tra filari vecchi e nuovi, parla dei loro impianti a cordone speronato, dei vitigni, del terreno pietroso e ricco di minerali, del significato dell'agricoltura biologica a cui loro aderiscono senza per questo rinnegare i classici interventi in vigna con sostanze naturali come lo zolfo e il rame contro oidio e peronospora. Parla del pianto della vite e della nuova moda di alcuni coltivatori di raccogliere le lacrime di linfa che colano in primavera dai tagli delle potature, per produrre prodotti cosmetici.
Parla dell'allegagione, ovvero del passaggio dal fiore al frutto, e dei fatidici "3 giorni" in cui il tempo deve essere clemente per non dilavare la preziosa opera di impollinazione da parte del vento e degli insetti, dei delicatissimi fiori della vite, pianta ermafrodita. Spiega il significato dell'invaiatura e, di nuovo, sottolinea quanto il lavoro dell'uomo diventa piccolo e debole di fronte alle bizze della natura. Per poi, a vendemmia fatta e vinificazione avvenuta, lasciarsi andare a un sospiro di sollievo lungo qualche mese. Mica tanti, perché anche nella stagione fredda il viticoltore, a differenza della vigna, non dorme mai. E i vini? Valgono tutti questi patimenti?
Un bianco, due rossi e un dolce esperimento
Dai terrazzamenti fioriti scendiamo a cascina Galbusera Nera, dove c'è la cantina con la sala degustazioni.
TERRE LARIANE IGT BIANCO "SOLESTA" 2009
70% riesling, 30% chardonnay + pinot bianco
Un "SOLstizio d'ESTAte" giallo paglierino brillante e consistente, con un naso intenso, complesso e fine. Con il passare dei minuti gli effluvii di acacia e sambuco vengono affiancati da sentori fruttati di ananas e banana, mentre emerge decisa la nota minerale di grafite con un velo di "gomma da riesling". Bocca caldo, morbido, fruttato e polposo, con un finale ammandorlato sin troppo deciso, destinato certamente ad attenuarsi negli anni. E' infatti un bianco da invecchiamento con una componente alcolica ben decisa.
13 % alcol, affinamento botti di acacia. A seguire acciaio e bottiglia.
TERRE LARIANE IGT "SéRIZ" 2008
Annata disastrosa per via delle piogge, per questo blend tra merlot (70%), cabernet sauvignon e syrah, che prende il nome dalle pietre ollari tipiche dei depositi glaciali dalla Valtellina alla Brianza.
Colore rubino consistente, naso dominato dalle amarene e dalle more, accompagnate da sentori vegetali e di erbe aromatiche e da un pizzico di spezie. In bocca è caldo, morbido e balsamico ma lo vorremmo meno alcolico e più corposo e strutturato in tannini. Chiude su pepe verde.
Solo legno grande, poi acciaio e chiarifica. 13,5 % vol.
PINOT NERO "SAN GIOBBE" 2009
Anno dopo anno il pinot nero si lascia addomesticare e il San Giobbe si incammina a diventare il vino di punta dell'azienda, pur non essendo ancora iscritto alla recente Igt Terre Lariane e pur nato per caso visto che, all'origine, il sig. Giordano Crippa voleva farne uno spumante bianco.
Colore rubino scarico, di bella consistenza, naso di caramelle di frutti di bosco, rosa canina, cuoio, ciliegia sotto spirito e liquerizia. Buon riscontro in bocca, per un vino che si lascia bere con piacere.
Macerazioni non troppo lunghe, in parte con i raspi. No follature, vinificazione parte in acciaio parte in rovere. Affinamento in botti grandi.
13 % vol.
CALIDO 2010
Poco più che famigliare la produzione di questo Vendemmia tardiva da traminer e moscato di Scanzo vinificato in bianco.
Colore dorato intenso con riflessi ambrati, naso di arance candite e rosa canina, con note di smalto molto spinte. In bocca caldo, morbido e ben equilibrato tra dolcezza e acidità, chiude con una leggera sensazione di effervescenza per via del basso contenuto di solforosa che permette una leggera rifermentazione.
100 ml residuo zuccherino.
CONCLUSIONI: PERCHE' NON FARE SOLO CHARDONNAY E PINOT NERO?
Zona splendida, cascine meravigliose, vini buoni e in sicura crescita. Resta una constatazione: curioso notare come la mappa viticola di Montevecchia metta fianco a fianco su una collina vitigni assai diversi gli uni dagli altri, come riesling, chardonnay, merlot, cabernet, syrah e pinot nero che altrove, in regime però di monoculture distanti anche parecchie centinaia di km, danno vita ai vini più grandi della terra. Non sarebbe meglio, per esempio, lasciare che la Valcalepio si occupi dei bordolesi e concentrarsi solo su pinot nero e chardonnay? Dopotutto non sono in pochi a soprannominare queste colline moreniche del milanese esposte verso sud-est "la piccola Borgogna brianzola". Da lì l'azienda La Costa potrebbe in futuro abbandonare l'incoerenza della Igt Terre Lariane per diventare titolare in regime di "monopole" di una nuova Doc Montevecchia tutta per sé.
martedì 24 maggio 2011
sabato 30 aprile 2011
Ottima bevuta pasquale con 16 euro
Quando lavoravo a Milano nella redazione di un mensile di enogastronomia uno dei pezzi più pallosi che mi spettavano di diritto, in qualità di ultimo dei redattori in ordine di importanza, bravura e considerazione, era quello dedicato a "Bere bene con meno di 50 euro". Si trattava, in sostanza, di inventare una storiella attorno a un menu di diverse portate accompagnate da vini differenti e con un ottimo rapporto qualità prezzo. La regola era, appunto, che bisognava riuscire a comprare 5-6 bottiglie in enoteca senza superare la soglia dei 50 euro. Ho rispolverato questo giochetto per Pasqua ma, invece che in enoteca, sono andato a far spesa all'Ipercoop di Cantù, il supermercato tra le province di Como e Lecco che ha la migliore selezione di vini.
Sapendo che eravamo una decina dei quali solo 3-4 discreti bevitori e che il menu pasquale avrebbe previsto antipasti, torte salate alle verdure, lasagne alle verdure e lasagne di carne, arrosto di vitello, agnello al forno con patate, colomba artigianale e pastiera napoletana, ho scelto cinque etichette:
Muller Thurgau Spumante Brut "Lilium" Concilio, Conegliano e Valdobbiadene Docg Prosecco Extra Dry Carpené Malvolti, Gutturnio Doc 2010 Casabella, Alto Adige Doc Pinot Nero 2009 Erste & Neue, Moscato liquoroso di Pantelleria Doc 2008 Carlo Pellegrino. In tutto ho speso poco più di 22 euro e mi sono pure beccato i complimenti di amici e parenti che hanno apprezzato la scelta dei vini. Non solo. Furbescamente sono riuscito a risparmiare il Pinot Nero, mio preferito, per un'altra occasione di minor condivisione.
Servito molto freddo, a non oltre 7°, gli aromi fruttati e erbacei del Brut di Concilio sono come una salda stretta di mano che invita a sedersi e cominciare a stuzzicare i primi bocconi degli antipasti, per poi continuare con la fresca morbidezza dell'Extra Dry di Carpené Malvolti, eccellente esempio di Prosecco a tutto pasto che mette d'accordo tutti i palati, da quelli più raffinati a quelli abituati alla gassosa. Sul Gutturnio vale il parere del mio vecchio zio, che da una vita si fa spedire i vini da un produttore dell'Oltrepo, che ha dichiarato "questo sembra quasi più buono di quello che prendo io!". Saltiamo, come anticipato, il Pinot Nero e passiamo al vino da dessert. Ecco, qui il palato allenato sorride apprezzando il gusto ruffiano del moscato liquoroso di Pellegrino, molto simile al vero e proprio Passito di Pantelleria sebbene meno alcolico e meno ricco di aromi e gusto. Resta comunque un ottimo vino dolce, perfetto per valorizzare il sapore della pastiera napoletana e per ripulirci la bocca dal velo della ricotta richiamando il gusto della frutta candita e del fior d'arancio.
Diamo un'occhiata allo scontrino: quattro ottimi vini stappati, 16 euro spesi. Mica male, no?
Sapendo che eravamo una decina dei quali solo 3-4 discreti bevitori e che il menu pasquale avrebbe previsto antipasti, torte salate alle verdure, lasagne alle verdure e lasagne di carne, arrosto di vitello, agnello al forno con patate, colomba artigianale e pastiera napoletana, ho scelto cinque etichette:
Muller Thurgau Spumante Brut "Lilium" Concilio, Conegliano e Valdobbiadene Docg Prosecco Extra Dry Carpené Malvolti, Gutturnio Doc 2010 Casabella, Alto Adige Doc Pinot Nero 2009 Erste & Neue, Moscato liquoroso di Pantelleria Doc 2008 Carlo Pellegrino. In tutto ho speso poco più di 22 euro e mi sono pure beccato i complimenti di amici e parenti che hanno apprezzato la scelta dei vini. Non solo. Furbescamente sono riuscito a risparmiare il Pinot Nero, mio preferito, per un'altra occasione di minor condivisione.
Servito molto freddo, a non oltre 7°, gli aromi fruttati e erbacei del Brut di Concilio sono come una salda stretta di mano che invita a sedersi e cominciare a stuzzicare i primi bocconi degli antipasti, per poi continuare con la fresca morbidezza dell'Extra Dry di Carpené Malvolti, eccellente esempio di Prosecco a tutto pasto che mette d'accordo tutti i palati, da quelli più raffinati a quelli abituati alla gassosa. Sul Gutturnio vale il parere del mio vecchio zio, che da una vita si fa spedire i vini da un produttore dell'Oltrepo, che ha dichiarato "questo sembra quasi più buono di quello che prendo io!". Saltiamo, come anticipato, il Pinot Nero e passiamo al vino da dessert. Ecco, qui il palato allenato sorride apprezzando il gusto ruffiano del moscato liquoroso di Pellegrino, molto simile al vero e proprio Passito di Pantelleria sebbene meno alcolico e meno ricco di aromi e gusto. Resta comunque un ottimo vino dolce, perfetto per valorizzare il sapore della pastiera napoletana e per ripulirci la bocca dal velo della ricotta richiamando il gusto della frutta candita e del fior d'arancio.
Diamo un'occhiata allo scontrino: quattro ottimi vini stappati, 16 euro spesi. Mica male, no?
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lunedì 11 aprile 2011
Un tempio del viandante in Val Masino
Resistono, più ci si allontana dalle città e dalle grandi arterie di comunicazione, quei piccoli templi del gusto dove da diverse generazioni si celebra la squisita tradizione della cucina casereccia. Quella delle massaie, che passano le giornate tra l'orto, la cucina e un amorevole scapaccione ai figli destinati ad ereditare la tradizione di famiglia. Un lascito impegnativo di cui bisogna essere quanto mai orgogliosi di questi tempi in cui imbranate conduttrici televisive vendono milioni di copie dei loro best-seller di ricette quotidiane spacciando i mondeghili per misteriose prelibatezze preistoriche.
Quando si ha la fortuna di capitare in uno di questi santuari del gusto è consigliabile rimandare qualsiasi impellenza "a dopo", mettere le gambe sotto alla tavola e lasciarsi guidare dal menu del giorno in un viaggio della memoria alla riscoperta dei sapori genuini che resistono ancora oggi lontano dalle città.
La gloriosa e orgogliosa Valtellina è una zona ricchissima di questi posti, arroccati qua e là dal versante assolato dei vini a quello quasi perennemente in ombra, oscurato dai ripidi contrafforti delle Orobie il cui primo bastione è il Legnone, all'imbocco della valle. Ricco di fattorie e allevamenti ma povero dal punto di vista vinicolo e frutticolo, il tratto basso della Valtellina che da Delebio porta ad Ardenno coincide con la Costiera dei Cech, ovvero con quella linea di paesini antichi a mezza costa del versante baciato da un sole che in virtù dell'inclinazione riesce a far cuocere i muretti a secco anche in pieno inverno. Cino, Siro, Cercino, Mello, Poira, Civo, Caspano (sui cui muri delle case secolari si leggono ancora scritte sbiadite come W Badoglio W il Re). L'ultimo, all'imbocco della perpendicolare Val Masino, prima di scendere ad Ardenno, è Cevo.
Qui, a pochi metri dalla strada protetta da una rete paramassi e dalla confluenza di due vorticosi torrenti, c'è L'albergo ristorante Ponte del Baffo, gestito da più generazioni della stessa famiglia. E', insomma, quanto di meglio può offrire una locanda del viandante, in termini di qualità, accoglienza, ospitalità e genuinità della cucina. Ai fornelli smanettano due arzille signore che hanno superato di slancio le ottanta primavere a forza di pizzoccheri, sciatt, bitto, casera e verdure dell'orto, e che non sanno nemmeno che cosa significhi la parola "colesterolo". Però la titolare, la signora Angela, ammette di mangiare tante noci, che pare aiutino a smaltire i grassi saturi. In sala la nipote si prodiga nella spiegazione dei piatti e della loro tradizione. Fatta di cucina di terra, e quindi salumi, formaggi, grano saraceno, manzo, cervo, funghi porcini, con la meravigliosa eccezione nel pescato che tutte le mattine arriva guizzando direttamente nelle reticelle dei pescatori locali: le eccellenti trote del fiume Masino, cucinate in tutte le salse.
Ecco il mio menu:
crespella al pomodoro e casera: voto 8.
sciatt più piccoli del formato usuale, per garantire la perfetta fusione del formaggio alleggerendo i tempi della frittura: voto 10.
trota in carpione: voto 9.
Vino sfuso di casa Nera, con la quale la locanda lavora da oltre sessant'anni: voto 7.
Prezzo: 24 euro acqua, caffé e grappa alle erbe locali inclusi.
Ideale per le coppie così come per le famiglie e le compagnie, prezzi a scalare sulla quantità dei convitati.
Quando si ha la fortuna di capitare in uno di questi santuari del gusto è consigliabile rimandare qualsiasi impellenza "a dopo", mettere le gambe sotto alla tavola e lasciarsi guidare dal menu del giorno in un viaggio della memoria alla riscoperta dei sapori genuini che resistono ancora oggi lontano dalle città.
La gloriosa e orgogliosa Valtellina è una zona ricchissima di questi posti, arroccati qua e là dal versante assolato dei vini a quello quasi perennemente in ombra, oscurato dai ripidi contrafforti delle Orobie il cui primo bastione è il Legnone, all'imbocco della valle. Ricco di fattorie e allevamenti ma povero dal punto di vista vinicolo e frutticolo, il tratto basso della Valtellina che da Delebio porta ad Ardenno coincide con la Costiera dei Cech, ovvero con quella linea di paesini antichi a mezza costa del versante baciato da un sole che in virtù dell'inclinazione riesce a far cuocere i muretti a secco anche in pieno inverno. Cino, Siro, Cercino, Mello, Poira, Civo, Caspano (sui cui muri delle case secolari si leggono ancora scritte sbiadite come W Badoglio W il Re). L'ultimo, all'imbocco della perpendicolare Val Masino, prima di scendere ad Ardenno, è Cevo.
Qui, a pochi metri dalla strada protetta da una rete paramassi e dalla confluenza di due vorticosi torrenti, c'è L'albergo ristorante Ponte del Baffo, gestito da più generazioni della stessa famiglia. E', insomma, quanto di meglio può offrire una locanda del viandante, in termini di qualità, accoglienza, ospitalità e genuinità della cucina. Ai fornelli smanettano due arzille signore che hanno superato di slancio le ottanta primavere a forza di pizzoccheri, sciatt, bitto, casera e verdure dell'orto, e che non sanno nemmeno che cosa significhi la parola "colesterolo". Però la titolare, la signora Angela, ammette di mangiare tante noci, che pare aiutino a smaltire i grassi saturi. In sala la nipote si prodiga nella spiegazione dei piatti e della loro tradizione. Fatta di cucina di terra, e quindi salumi, formaggi, grano saraceno, manzo, cervo, funghi porcini, con la meravigliosa eccezione nel pescato che tutte le mattine arriva guizzando direttamente nelle reticelle dei pescatori locali: le eccellenti trote del fiume Masino, cucinate in tutte le salse.
Ecco il mio menu:
crespella al pomodoro e casera: voto 8.
sciatt più piccoli del formato usuale, per garantire la perfetta fusione del formaggio alleggerendo i tempi della frittura: voto 10.
trota in carpione: voto 9.
Vino sfuso di casa Nera, con la quale la locanda lavora da oltre sessant'anni: voto 7.
Prezzo: 24 euro acqua, caffé e grappa alle erbe locali inclusi.
Ideale per le coppie così come per le famiglie e le compagnie, prezzi a scalare sulla quantità dei convitati.
venerdì 1 aprile 2011
Primavera tempo di banchetti
Ai primi di marzo sono stato invitato a un matrimonio con tanto di banchetto nuziale in un noto ristorante brianzolo specializzato in questo tipo di eventi. Sui tavoli c'erano due vini, un bianco e un rosso. Il rosso era un Dolcetto di Terre del Barolo davvero assai poco gradevole, tanto che tutti si sono lanciati su un Bianco di Custoza che, invece, si è subito presentato assai beverino e ci ha fatto compagnia per tutto il pranzo.
Custoza Doc "Elite" 2009 Az. Agr. Giarola
Giallo paglierino scarico, brillante e di media consistenza, per questo blend di uve bianche lavorate da questa azienda a due passi dalla sponda veronese del Garda: garganega con l'aggiunta di tocai, cortese, trebbiano toscano.
Al naso ha una discreta complessità aromatica, è floreale e agrumato, con una nota sapida che torna con evidenza in bocca, accompagnata da un'ottima freschezza. Un vino semplice, elegante e piacevole, troppo debole per elevare un normale pasto a qualcosa di indimenticabile, ma anche sufficientemente ben fatto da rendere gradite tutte le portate degli irrinunciabili banchetti da grandi eventi. E' il classico bianco che, dopo averne svuotate diverse bottiglie, suscita nei convitati le classiche espressioni del tipo "però, mica male 'sto vinello!".
Custoza Doc "Elite" 2009 Az. Agr. Giarola
Giallo paglierino scarico, brillante e di media consistenza, per questo blend di uve bianche lavorate da questa azienda a due passi dalla sponda veronese del Garda: garganega con l'aggiunta di tocai, cortese, trebbiano toscano.
Al naso ha una discreta complessità aromatica, è floreale e agrumato, con una nota sapida che torna con evidenza in bocca, accompagnata da un'ottima freschezza. Un vino semplice, elegante e piacevole, troppo debole per elevare un normale pasto a qualcosa di indimenticabile, ma anche sufficientemente ben fatto da rendere gradite tutte le portate degli irrinunciabili banchetti da grandi eventi. E' il classico bianco che, dopo averne svuotate diverse bottiglie, suscita nei convitati le classiche espressioni del tipo "però, mica male 'sto vinello!".
lunedì 28 marzo 2011
Una belga ambrata alla liquerizia
Rapida escursione nel mondo delle birre, che in quanto a sfumature e varietà è assai più complesso anche di quello del vino, per via anche della possibilità di aromatizzare il prodotto 'base' con gli aromi più disparati. L'altra sera ho stappato una delle birre belghe che un mio amico che lavora in un pub mi aveva regalato per Natale. Prodotta a Wevelgem dal birrificio artigianale Brouwerij De Ranke, è un'ambrata importante - 7% alcol - che nasce da una tripla fermentazione e con un complesso sapore dolceamaro. Amaro che è dato dal luppolo ma anche dalla liquirizia usata per arricchire il bouquet aromatico di questa birra.
In bocca spiccano note di scorza d'arancia candita, chinotto, miele di castagno, castagnaccio e appunto, della liquerizia che dà una coerenza amarognola a un gusto elegante che dura in persistenza e che non stanca per via della buona freschezza. La bottiglia da 33 cl si trova a circa 3,50 €.
In bocca spiccano note di scorza d'arancia candita, chinotto, miele di castagno, castagnaccio e appunto, della liquerizia che dà una coerenza amarognola a un gusto elegante che dura in persistenza e che non stanca per via della buona freschezza. La bottiglia da 33 cl si trova a circa 3,50 €.
lunedì 21 marzo 2011
Un Arneis per brindare alla primavera
Ieri sono andato a prendere i primi raggi di sole primaverile dalle parti di Villa del Balbianello, sul lago di Como, e per evitare la coda dei milanesi che non conosce stagioni ma orari sì - micidiale il lasso 17-19 - ho deciso di fermarmi a mangiare qualcosa in un grazioso ristorantino a Lenno. Si chiama Trattoria S. Stefano ed è un localino a gestione famigliare con una cinquantina di coperti tra saletta e verandina, dall'atmosfera antica e dagli importanti riconoscimenti di Slow Food appiccicati belli in mostra in vetrina, accanto al menu.
Ci sediamo, diamo un'occhiata alla carta mentre la titolare ci anticipa l'assenza di parecchi piatti, evidentemente esauriti dal doppio turno di affamati turisti per pranzo, e scegliamo di farci un antipasto e un secondo.
Filetto di pesce in salsa verde e lavarello al burro e salvia con patatine fritte.
Da bere noto con piacere la presenza di bottiglie da 0,375 l. Prendo l'Arneis di Malvirà.
Roero Arneis Docg 2009 Malvirà
Colore giallo paglierino cristallino e abbastanza consistente, al naso rivela subito la vivace florealità di acacia e biancospino e la mineralità tipiche del vitigno, sensazioni che si ripresentano in bocca accompagnate da una piacevole nota agrumata di limoni freschi che va sfumando su un finale ammandorlato davvero piacevole. Un vino secco e abbastanza caldo, che gioca molto sull'acidità e sulla sapidità, capace di valorizzare con personalità ed eleganza i piatti di pesce di lago. In carta 11 euro, un po' caruccio visto che la bottiglia intera di questo Arneis 'base' dei rinomati fratelli Roberto e Massimo Damonte si trova in enoteca a non più di 10 euro. Ma tant'è. Tutto ottimo. E pazienza se alla fine la signora si fa scappare 3 acque al posto di una. E' domenica sera, e per lei e l'anziano marito chef con tatuaggio da marinaio sul polso, sta per cominciare il giorno di riposo.
Ci sediamo, diamo un'occhiata alla carta mentre la titolare ci anticipa l'assenza di parecchi piatti, evidentemente esauriti dal doppio turno di affamati turisti per pranzo, e scegliamo di farci un antipasto e un secondo.
Filetto di pesce in salsa verde e lavarello al burro e salvia con patatine fritte.
Da bere noto con piacere la presenza di bottiglie da 0,375 l. Prendo l'Arneis di Malvirà.
Roero Arneis Docg 2009 Malvirà
Colore giallo paglierino cristallino e abbastanza consistente, al naso rivela subito la vivace florealità di acacia e biancospino e la mineralità tipiche del vitigno, sensazioni che si ripresentano in bocca accompagnate da una piacevole nota agrumata di limoni freschi che va sfumando su un finale ammandorlato davvero piacevole. Un vino secco e abbastanza caldo, che gioca molto sull'acidità e sulla sapidità, capace di valorizzare con personalità ed eleganza i piatti di pesce di lago. In carta 11 euro, un po' caruccio visto che la bottiglia intera di questo Arneis 'base' dei rinomati fratelli Roberto e Massimo Damonte si trova in enoteca a non più di 10 euro. Ma tant'è. Tutto ottimo. E pazienza se alla fine la signora si fa scappare 3 acque al posto di una. E' domenica sera, e per lei e l'anziano marito chef con tatuaggio da marinaio sul polso, sta per cominciare il giorno di riposo.
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martedì 15 marzo 2011
Appunti dal Nuovo Mondo (pt.3): Clos Henri, New Zealand
..Nuovo Mondo che, per la verità, riserva ben poche sorprese interessanti soprattutto per quanto riguarda i rossi. Non male il Pinotage delle tenute sudafricane L'Avenir, del colosso francese Laroche. L'azienda ha vigneti in tutto il mondo, Cile compreso, dove produce un Carmenére che piacerà in Sudamerica ma che è decisamente lontano dai canoni europei di eleganza e raffinatezza. Ottime conferme, invece, dalla Nuova Zelanda, ormai consacrata a nuovo paradiso di vitigni internazionali tradizionalmente legati alla Francia, come il sauvignon, lo chardonnay e il pinot nero. L'azienda Clos Henri si trova nella punta settentrionale dell'isola sud, nella contea di Marlborough, ed è di proprietà di Henri Bourgeois, gran produttore di Sancerre e Pouilly Fumé lungo la Loira, e dunque profondo conoscitore delle doti del sauvignon. Quello prodotto agli antipodi è ben distante dalla complessa eleganza agrumata e minerale che esprime in madrepatria, e punta tutto sull'esuberanza del peperone verde e del frutto tropicale maturo. Comunque buono e tipico. Da applauso anche il suo pinot nero, uva scorbutica e caratteriale, generosissima con chi la sa addomesticare. Non all'altezza della Borgogna ma simile, questo neozelandese, ad alcuni dei migliori Pinot Nero che possiamo assaggiare in Alto Adige.
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giovedì 10 marzo 2011
Appunti da Villa Cavenago (pt. 2)
..buon rapporto qualità prezzo ma niente di eccezionale da Terra Burdigala, azienda bordolese di cui assaggiamo il ROC DE JEAN LYS 2007, un Bordeaux Superieur 70% merlot e 30% cabernet franc. Meglio, decisamente meglio, i Bordeaux Grand Cru di Chateau Laroque, eleganti, strutturati e opulenti. Da lì ci voltiamo ed è un passo che siamo sul Rodano. Buono e ben fatto il Syrah CROZES-HERMITAGE 2007 di Domaine Combier, un concentrato di more e lamponi, pepe e violette sostenuto da un picevole nerbo acido.
A partecipare a questi banchi d'assaggio con un ristoratore passionale rischi davvero di mandare a monte qualsiasi ordine di degustazione. E così, dopo un altro grissino e un sorso d'acqua, ci ritroviamo prima in Grecia ad assaggiare un curioso bianco di Santorini da uve assyrtiko, fruttato e mineralissimo, quasi salato ma davvero piacevole per via dell'ottima freschezza, prima di teletrasportarci in Alsazia a gustare la potente struttura fruttata e minerale dei bianchi da pinot gris e riesling di Willm. Con una chiusura su un crémant, il metodo classico alsaziano. E allora perché non andare direttamente in Champagne? Troppo presto, c'è ancora qualcosa da scoprire nel Nuovo Mondo..continua..
A partecipare a questi banchi d'assaggio con un ristoratore passionale rischi davvero di mandare a monte qualsiasi ordine di degustazione. E così, dopo un altro grissino e un sorso d'acqua, ci ritroviamo prima in Grecia ad assaggiare un curioso bianco di Santorini da uve assyrtiko, fruttato e mineralissimo, quasi salato ma davvero piacevole per via dell'ottima freschezza, prima di teletrasportarci in Alsazia a gustare la potente struttura fruttata e minerale dei bianchi da pinot gris e riesling di Willm. Con una chiusura su un crémant, il metodo classico alsaziano. E allora perché non andare direttamente in Champagne? Troppo presto, c'è ancora qualcosa da scoprire nel Nuovo Mondo..continua..
mercoledì 9 marzo 2011
Tentazioni borgognone da Villa Cavenago (pt. 1)
Grande affluenza di ristoratori e ottima organizzazione anche per questa nuova anteprima primaverile dei vini distribuiti da Pellegrini. L'atmosfera è quella di una prestigiosa fiera del vino, inserita nella cornice nobiliare della splendida Villa Cavenago di Trezzo sull'Adda. L'anno scorso avevamo cercato di rendere omaggio a una selezione di vini italiani ed esteri, con il risultato di arenarci su prosecchi del nord e bianchi del sud e di perderci la créme della degustazione, ovvero i vini francesi, quelli del resto del mondo e i distillati.
E allora quest'anno la decisione è stata ferma. "Si parte dalla Francia".
Salvo poi una tanto rapida quanto gradevole sosta da Bisci per inchinarci di fronte al suo "Senex" 2003, uno straordinario Verdicchio di Matelica che si meriterà presto un post tutto suo. Diciamo che è stato il giusto aperitivo che ci ha introdotti nell'adiacente sala della Borgogna. Resto sempre più convinto, infatti, che l'unico bianco italiano capace di non sfigurare con i grandi chardonnay di Francia per complessità, eleganza e raffinatezza è proprio il Verdicchio, di Jesi ma soprattutto quello di Matelica.
E così dalle Marche entriamo nel regno del pinot nero e dello chardonnay. Precisamente a Meursault, in Cote de Beaune, terra di bianchi straordinari. Un paio d'anni fa durante un viaggio in Borgogna ci eravamo innamorati degli Chardonnay di Michel Bouzereau e di suo figlio Jean-Baptiste, il cui stile inconfondibile abbiamo ritrovato con immenso piacere nei vini di Ballot Millot & Fils, che scopriamo essere parenti stretti del buon Bouzereau. Bianchi di grande eleganza e raffinatezza, giocati su una concentrazione di agrumi e mineralità che acquistano forza e complessità salendo dai 'villages' fino ai 1er Cru senza mai concedere nulla allo scontato, al banale o allo stancante.
Per la goduria massima occorre però lasciare Meursault per andare nell'altra grande appellation dei sublimi bianchi di Borgogna, ovvero a Chassagne-Montrachet, che sul tavolo di degustazione è proprio lì a fianco, per assaggiare gli Chardonnay di Domaine Amiot Guy & Fils.
E da lì un salto indietro per pulire la bocca con grissino e sorso d'acqua per apprezzare anche i grandissimi pinot noir di entrambi i produttori.
Dopo questi primi assaggi eravamo già talmente soddisfatti da essere tentati di trasferirci in zona Champagne ma la vista del Syrah del Rodano e del banco dei bordolesi ci ha convinti a complicarci il cammino..continua
E allora quest'anno la decisione è stata ferma. "Si parte dalla Francia".
Salvo poi una tanto rapida quanto gradevole sosta da Bisci per inchinarci di fronte al suo "Senex" 2003, uno straordinario Verdicchio di Matelica che si meriterà presto un post tutto suo. Diciamo che è stato il giusto aperitivo che ci ha introdotti nell'adiacente sala della Borgogna. Resto sempre più convinto, infatti, che l'unico bianco italiano capace di non sfigurare con i grandi chardonnay di Francia per complessità, eleganza e raffinatezza è proprio il Verdicchio, di Jesi ma soprattutto quello di Matelica.
E così dalle Marche entriamo nel regno del pinot nero e dello chardonnay. Precisamente a Meursault, in Cote de Beaune, terra di bianchi straordinari. Un paio d'anni fa durante un viaggio in Borgogna ci eravamo innamorati degli Chardonnay di Michel Bouzereau e di suo figlio Jean-Baptiste, il cui stile inconfondibile abbiamo ritrovato con immenso piacere nei vini di Ballot Millot & Fils, che scopriamo essere parenti stretti del buon Bouzereau. Bianchi di grande eleganza e raffinatezza, giocati su una concentrazione di agrumi e mineralità che acquistano forza e complessità salendo dai 'villages' fino ai 1er Cru senza mai concedere nulla allo scontato, al banale o allo stancante.
Per la goduria massima occorre però lasciare Meursault per andare nell'altra grande appellation dei sublimi bianchi di Borgogna, ovvero a Chassagne-Montrachet, che sul tavolo di degustazione è proprio lì a fianco, per assaggiare gli Chardonnay di Domaine Amiot Guy & Fils.
E da lì un salto indietro per pulire la bocca con grissino e sorso d'acqua per apprezzare anche i grandissimi pinot noir di entrambi i produttori.
Dopo questi primi assaggi eravamo già talmente soddisfatti da essere tentati di trasferirci in zona Champagne ma la vista del Syrah del Rodano e del banco dei bordolesi ci ha convinti a complicarci il cammino..continua
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lunedì 7 marzo 2011
Domani degustazione a Villa Cavenago
Domani dopo pranzo si va a Villa Cavenago (Trezzo sull'Adda, Mi) per l'annuale appuntamento con i vini italiani e stranieri e con i distillati distribuiti da Pellegrini Vini. Ingresso solo su invito, riservato agli operatori. Qui trovate il comunicato stampa. Qui invece qualche appunto dall'anno scorso.
giovedì 3 marzo 2011
Freisa, una nuova procuginetta per il nebbiolo?
Come capita agli uomini, anche le uve alzano la cresta - e le 'ali', laddove ci sono - per rivendicare titoli nobiliari. Se non fosse che lo fanno sempre per bocca degli uomini. In questi giorni ho letto un articolo su una rivista specializzata, ok niente misteri su deVinis, il mensile dell'Ais, sul recupero dell'antica vigna di Villa della Regina, a Torino. Meno di un ettaro dove sono state impiantate 2700 barbatelle di freisa, con vista sulle Alpi e sulla Mole Antonelliana. L'autore getta tra le righe con non-chalance il fatto che nuovi studi ampelografici condotti da tale dottoressa Anna Schneider hanno rilevato una parentela di questa uva rossa tipica del Piemonte e in particolare del torinese (Doc Chieri) e dell'astigiano (Doc Asti) con il mitico nebbiolo, il re delle Langhe e grande notabile nella ristretta cerchia dei vitigni più pregiati del mondo. Parentela possibile, oppure una trovata pubblicitaria per attirare visitatori in questa restaurata vigna di città, rarità che la prima capitale d'Italia condivide con Parigi e Vienna?
Differenze da manuale
Ecco come i manuali specializzati descrivono questi due vitigni. A voi decidere se elevare la freisa a una sorta di procuginetta del nebbiolo o declassarla a Cenerentola in cerca del suo Principe azzurro.
NEBBIOLO: grappolo piramidale, alato, piuttosto allungato, abbastanza compatto. Acino medio-piccolo, rotondo o ellissoidale, con buccia sottile e consistente, molto 'pruinosa'. Ciclo vegetativo lunghissimo, vendemmia fino a novembre. Acini ricchissimi di acidi, zuccheri e polifenoli, per vini austeri e molto strutturati.
FREISA: grappolo medio, cilindrico, aperto quasi spargolo, acino medio, tondo con buccia pruinosa sottile e resistente, nero bluastro. Maturazione precoce, grande flessibilità in vinificazione per vini giovani o invecchiati, secchi o dolci, mossi o fermi.
Differenze da manuale
Ecco come i manuali specializzati descrivono questi due vitigni. A voi decidere se elevare la freisa a una sorta di procuginetta del nebbiolo o declassarla a Cenerentola in cerca del suo Principe azzurro.
NEBBIOLO: grappolo piramidale, alato, piuttosto allungato, abbastanza compatto. Acino medio-piccolo, rotondo o ellissoidale, con buccia sottile e consistente, molto 'pruinosa'. Ciclo vegetativo lunghissimo, vendemmia fino a novembre. Acini ricchissimi di acidi, zuccheri e polifenoli, per vini austeri e molto strutturati.
FREISA: grappolo medio, cilindrico, aperto quasi spargolo, acino medio, tondo con buccia pruinosa sottile e resistente, nero bluastro. Maturazione precoce, grande flessibilità in vinificazione per vini giovani o invecchiati, secchi o dolci, mossi o fermi.
lunedì 28 febbraio 2011
Il favorito di Napoleone Bonaparte
Certo, stappare una bottiglia di Jacquesson Cuvée 733 per accompagnare un comunissimo risotto al radicchio può sembrare quasi una bestemmia. Anche perché il gusto amarognolo dell'insalata rossa trevisana rischia di fare a gomitate con la spinta acidità che caratterizza questo prestigioso Champagne. Però sono davvero pochi i momenti per cui vale la pena stappare una bottiglia del genere, e ad aspettare di rischia di far andare a male il vino, specie se non si possiedono cantinette climatizzate. E poi alle volte è bello mettere alla prova le bollicine più raffinate e versatili del mondo anche con piatti all'apparenza 'difficili'. Per arrivare poi alla conclusione che no, fatta eccezione per i dolci al cioccolato e per le portate con aceto e limone, non esiste un piatto che non possa andare d'accordo con uno Champagne di classe.
Champagne Jacquesson Cuvée n°733
Nate nel 1798, le bollicine di Memmie Jacquesson divennero presto le preferite di Napoleone, che nel 1810 assegnò alla piccola maison di Dizy, alle porte di Aÿ, la "medaglia d'oro per la bellezza e la ricchezza delle sue cantine". Ancora oggi l'azienda ha mantenuto le ridotte dimensioni di allora che consentono agli attuali proprietari, i fratelli Chiquet, di lavorare in maniera assolutamente non industriale sulle 350mila bottiglie l'anno prodotte. Senza diserbanti né pesticidi, selezionando le migliori uve dai premier cru e grand cru della Valle della Marna e della Cote des blancs, e vinificandole senza filtrazioni. La cuvée numero 733 è figlia in buona parte dell'annata 2005, con la 'correzione' di vini di riserva delle annate 2004 e 2001. Dal primo assaggio è evidente che il vitigno prevalente è lo chardonnay, che occupa il 52% dell'uvaggio, completato da un 24% di pinot noir e 24% di pinot meunier.
Il colore è giallo dorato cristallino, il perlage è di una finezza straordinaria, e le minuscole bollicine liberano al naso raffinati sentori di agrumi freschi, fior d'arancio, magnolia e giacinto, rese ancora più fragranti dall'aroma del pane appena sfornato e dei biscotti al limone.
In bocca è generosissimo e di una freschezza assoluta, un Brut secchissimo - solo 2,5 gr/l di zuccheri aggiunti dopo il dégorgement - di una piacevolezza fuori dal comune.
Cremoso, complesso ed elegantissimo, ha una veste talmente delicata da rendere aggraziate anche le forme rustiche e spigolose di un risotto formaggio e radicchio.
In enoteca si trova a 45 euro, al ristorante 60 euro è un prezzo ancora onesto per uno Champagne che lascia il segno. In Italia lo distribuisce Pellegrini.
Champagne Jacquesson Cuvée n°733
Nate nel 1798, le bollicine di Memmie Jacquesson divennero presto le preferite di Napoleone, che nel 1810 assegnò alla piccola maison di Dizy, alle porte di Aÿ, la "medaglia d'oro per la bellezza e la ricchezza delle sue cantine". Ancora oggi l'azienda ha mantenuto le ridotte dimensioni di allora che consentono agli attuali proprietari, i fratelli Chiquet, di lavorare in maniera assolutamente non industriale sulle 350mila bottiglie l'anno prodotte. Senza diserbanti né pesticidi, selezionando le migliori uve dai premier cru e grand cru della Valle della Marna e della Cote des blancs, e vinificandole senza filtrazioni. La cuvée numero 733 è figlia in buona parte dell'annata 2005, con la 'correzione' di vini di riserva delle annate 2004 e 2001. Dal primo assaggio è evidente che il vitigno prevalente è lo chardonnay, che occupa il 52% dell'uvaggio, completato da un 24% di pinot noir e 24% di pinot meunier.
Il colore è giallo dorato cristallino, il perlage è di una finezza straordinaria, e le minuscole bollicine liberano al naso raffinati sentori di agrumi freschi, fior d'arancio, magnolia e giacinto, rese ancora più fragranti dall'aroma del pane appena sfornato e dei biscotti al limone.
In bocca è generosissimo e di una freschezza assoluta, un Brut secchissimo - solo 2,5 gr/l di zuccheri aggiunti dopo il dégorgement - di una piacevolezza fuori dal comune.
Cremoso, complesso ed elegantissimo, ha una veste talmente delicata da rendere aggraziate anche le forme rustiche e spigolose di un risotto formaggio e radicchio.
In enoteca si trova a 45 euro, al ristorante 60 euro è un prezzo ancora onesto per uno Champagne che lascia il segno. In Italia lo distribuisce Pellegrini.
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domenica 20 febbraio 2011
Un quadretto con vista sulla Valtellina
*"A Velazquez" (1985), del pittore bellanese Giancarlo Vitali.
Ormai da qualche tempo sta diventando un appuntamento fisso la cena di inizio anno con due vecchi compagni di liceo e università. Il primo vive da anni a Pechino e torna solo per le feste natalizie. Il secondo vive a Londra dove sta frequentando un master in giornalismo. Originario di Bellano, non guida. Di conseguenza, la scelta della tavola della tradizionale reunion ruota per comodità sempre intorno al paesino lacustre dello scrittore Andrea Vitali.
Ed è così che, per il secondo anno consecutivo, siamo andati a cena all'Orrido, albergo ristorante amato dallo stesso autore di Una finestra vista lago e altri best-sellers ambientati nel Ventennio fascista.
La cucina del ristorante rispecchia perfettamente l'anima metà lecchese metà trentina della famiglia che lo gestisce da tanti anni.
Canederli in brodo o burro e salvia, raviolini di grano saraceno al Taleggio, brasati di cervo con polenta e pesce di lago in carpione. E via dicendo. Non ci si ammazza in quantità ma si mangia bene e ci si alza da tavola soddisfatti per andare al banco per un giro di grappa e a pagare un conto che non supera mai i 32 euro, bottiglia di vino compresa. Stavolta è toccato al Quadrio di Nino Negri.
Valtellina Superiore Docg 'Quadrio' 2007, Nino Negri
Prodotto con uve chiavennasca ammorbidite con un 10% di merlot, provenienti da tutte le 5 sottozone della Valtellina, questo rosso prende il nome dal quattrocentesco Castello Quadrio di Chiuro, fatto erigere da Filippo Visconti nel 1432 e appartenuto al governatore della Valtellina Stefano Quadrio nel XV secolo, per poi essere acquistato da Nino Negri nel 1897. Da allora il castello è sede dell'azienda, dal 1986 passata sotto il GIV (Gruppo Italiano Vini).
Il vino ha colore rosso granato limpido e brillante. Al naso i profumi sono intensi, complessi e fini, di mirtilli, ciliege, more e fiori rossi appassiti, che si aprono abbracciando anche una nota erbacea ed eterea.
In bocca ha una struttura di buona freschezza e sapidità, e il tannino regala la piacevole sensazione di secchezza che appiccica sulla lingua le note di prugna, liquirizia e tabacco dolce, sparecchiando il palato dai sapori forti dei raviolini al Taleggio e del brasato di cervo con polenta. Un buon vino davvero, di personalità e al contempo beverino, a un prezzo che al ristorante si aggira intorno ai 16 euro.
Ormai da qualche tempo sta diventando un appuntamento fisso la cena di inizio anno con due vecchi compagni di liceo e università. Il primo vive da anni a Pechino e torna solo per le feste natalizie. Il secondo vive a Londra dove sta frequentando un master in giornalismo. Originario di Bellano, non guida. Di conseguenza, la scelta della tavola della tradizionale reunion ruota per comodità sempre intorno al paesino lacustre dello scrittore Andrea Vitali.
Ed è così che, per il secondo anno consecutivo, siamo andati a cena all'Orrido, albergo ristorante amato dallo stesso autore di Una finestra vista lago e altri best-sellers ambientati nel Ventennio fascista.
La cucina del ristorante rispecchia perfettamente l'anima metà lecchese metà trentina della famiglia che lo gestisce da tanti anni.
Canederli in brodo o burro e salvia, raviolini di grano saraceno al Taleggio, brasati di cervo con polenta e pesce di lago in carpione. E via dicendo. Non ci si ammazza in quantità ma si mangia bene e ci si alza da tavola soddisfatti per andare al banco per un giro di grappa e a pagare un conto che non supera mai i 32 euro, bottiglia di vino compresa. Stavolta è toccato al Quadrio di Nino Negri.
Valtellina Superiore Docg 'Quadrio' 2007, Nino Negri
Prodotto con uve chiavennasca ammorbidite con un 10% di merlot, provenienti da tutte le 5 sottozone della Valtellina, questo rosso prende il nome dal quattrocentesco Castello Quadrio di Chiuro, fatto erigere da Filippo Visconti nel 1432 e appartenuto al governatore della Valtellina Stefano Quadrio nel XV secolo, per poi essere acquistato da Nino Negri nel 1897. Da allora il castello è sede dell'azienda, dal 1986 passata sotto il GIV (Gruppo Italiano Vini).
Il vino ha colore rosso granato limpido e brillante. Al naso i profumi sono intensi, complessi e fini, di mirtilli, ciliege, more e fiori rossi appassiti, che si aprono abbracciando anche una nota erbacea ed eterea.
In bocca ha una struttura di buona freschezza e sapidità, e il tannino regala la piacevole sensazione di secchezza che appiccica sulla lingua le note di prugna, liquirizia e tabacco dolce, sparecchiando il palato dai sapori forti dei raviolini al Taleggio e del brasato di cervo con polenta. Un buon vino davvero, di personalità e al contempo beverino, a un prezzo che al ristorante si aggira intorno ai 16 euro.
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domenica 30 gennaio 2011
Un cannonau sella e cimice
Stamattina sono sceso in cantina per pescare nella 'riserva discount' di mio padre un rosso adatto per accompagnare la tasca di vitello ripiena preparata da mia madre, e la polenta che mi accingevo a rimestare. Fatta quasi interamente con farina di grano saraceno e una piccola parte di farina di mais 'fioretto'.
Tra le varie bottiglie ho notato l'etichetta della linea da supermarket di Fontanafredda, azienda langarola comparsa proprio nel post precedente. Langhe Doc Nebbiolo 2006. Proviamolo. Lo porto in cucina e lo lascio un'ora ad acclimatarsi mentre, tra una rimestata col tarel e l'altra, continuo la lettura de La solitudine dei numeri primi, bestseller scritto, guarda caso, proprio da un piemontese.
Stappo il vino, annuso il tappo e... tombola. Rovinato. Muffito. Il sughero secco e compattissimo, il vino inacidito. Sarà un caso ma l'assaggio sorprendente del Dolcetto La Lepre rimane una lieta sorpresa per un'azienda che, almeno nella linea da supermercato, continua a lasciarmi scettico. Un numero primo anch'esso, insomma, quel Dolcetto fortunato. Ridiscendo negli inferi dei vini da discount, lascio il Piemonte e cerco consolazione in Sardegna.
Sardegna Doc Cannonau 2007 Sella e Mosca
Stavolta il tappo non ha difetti di conservazione. Il vino ha colore rosso brillante con sfumature granate. Al naso è assai poco invitante. Il sottile strato di frutti rossi e acidelli come amarene e ribes è soffocato da un prepotente sentore selvatico. E' quello che gli esperti chiamano cuoio ma che qui è più complesso e comprende un po' tutto il mondo dei cavalli, dal sudore alla sella bagnata fino allo stallatico.
A questi si aggiunge un evidente sentore sapido come quello che si ha quando si apre un barattolo con il sale nella nostra casa al mare rimasta chiusa per un anno. E, infine, delle sgraziate note balsamiche che dovrebbero richiamare la macchia mediterranea e quindi il mirto, il pino d'aleppo o il corbezzolo e che invece ricordano tanto l'olezzo delle cimici schiacciate.
In bocca ha una buona freschezza ma è 'polveroso', caldo e mediamente tannico. E' meno sgraziato che al naso, anche se sono sempre evidenti le note selvatiche e 'verdi', con l'aggiunta di un pizzico di pepe verde che chiude l'assaggio.
Insomma, indipendentemente da un prezzo che sarà certamente molto basso, diciamo che l'azienda sarda più famosa sul continente con questo Cannonau ha toppato. C'è decisamente di meglio. Sia nella sua vastissima gamma per tutti i portafogli, sia in quella di altre aziende, pure 'da supermercato'. Perché se è questa la tanto giustamente decantata 'tipicità' dei vitigni autoctoni italiani come, appunto, il cannonau, no grazie. Tutta la vita un merlot del Veneto.
Tra le varie bottiglie ho notato l'etichetta della linea da supermarket di Fontanafredda, azienda langarola comparsa proprio nel post precedente. Langhe Doc Nebbiolo 2006. Proviamolo. Lo porto in cucina e lo lascio un'ora ad acclimatarsi mentre, tra una rimestata col tarel e l'altra, continuo la lettura de La solitudine dei numeri primi, bestseller scritto, guarda caso, proprio da un piemontese.
Stappo il vino, annuso il tappo e... tombola. Rovinato. Muffito. Il sughero secco e compattissimo, il vino inacidito. Sarà un caso ma l'assaggio sorprendente del Dolcetto La Lepre rimane una lieta sorpresa per un'azienda che, almeno nella linea da supermercato, continua a lasciarmi scettico. Un numero primo anch'esso, insomma, quel Dolcetto fortunato. Ridiscendo negli inferi dei vini da discount, lascio il Piemonte e cerco consolazione in Sardegna.
Sardegna Doc Cannonau 2007 Sella e Mosca
Stavolta il tappo non ha difetti di conservazione. Il vino ha colore rosso brillante con sfumature granate. Al naso è assai poco invitante. Il sottile strato di frutti rossi e acidelli come amarene e ribes è soffocato da un prepotente sentore selvatico. E' quello che gli esperti chiamano cuoio ma che qui è più complesso e comprende un po' tutto il mondo dei cavalli, dal sudore alla sella bagnata fino allo stallatico.
A questi si aggiunge un evidente sentore sapido come quello che si ha quando si apre un barattolo con il sale nella nostra casa al mare rimasta chiusa per un anno. E, infine, delle sgraziate note balsamiche che dovrebbero richiamare la macchia mediterranea e quindi il mirto, il pino d'aleppo o il corbezzolo e che invece ricordano tanto l'olezzo delle cimici schiacciate.
In bocca ha una buona freschezza ma è 'polveroso', caldo e mediamente tannico. E' meno sgraziato che al naso, anche se sono sempre evidenti le note selvatiche e 'verdi', con l'aggiunta di un pizzico di pepe verde che chiude l'assaggio.
Insomma, indipendentemente da un prezzo che sarà certamente molto basso, diciamo che l'azienda sarda più famosa sul continente con questo Cannonau ha toppato. C'è decisamente di meglio. Sia nella sua vastissima gamma per tutti i portafogli, sia in quella di altre aziende, pure 'da supermercato'. Perché se è questa la tanto giustamente decantata 'tipicità' dei vitigni autoctoni italiani come, appunto, il cannonau, no grazie. Tutta la vita un merlot del Veneto.
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domenica 23 gennaio 2011
Una Lepre da acchiappare al volo
La settimana scorsa ero a cena a Perugia in una deliziosa enoteca in via Cavour, gestita da un simpatico e brillante sommelier. A lasciarsi trasportare dalle specialità nel menu ci sarebbe stato da salire in carrozza per un viaggio dall'antipasto al dolce andata e ritorno per poi ricominciare daccapo salendo di una tonalità. Ma la cassa di risonanza del nostro stomaco non sarebbe stata in grado di reggere una simile cavalcata del gusto, e così abbiamo deciso di concentrarci su un piatto unico.
La mia amica una bella tagliata di entrecote con ratatouille di verdure. Io strangozzi con pomodori, guanciale di Norcia e scaglie di grana 'intruso' di Todi.
E il vino? La lista ne suggeriva di diversi per regione ma il mio 'nordismo', almeno per quanto riguarda il mio 'schieramento enologico' totalmente difforme da quello politico, mi ha portato a dare un'occhiata tra Piemonte, Trentino e Friuli.
"Proviamo il Dolcetto d'Alba di Prunotto", ho detto al sommelier.
Questi è tornato tenendo tra le mani una bottiglia con una simpatica etichetta con scritto 'La Lepre' a caratteri pelosi.
"Prunotto l'ho finito. Se vuoi ho questo Dolcetto di Fontanafredda. E' molto buono".
Fontanafredda. Un nome che troppo spesso associo agli scaffali dei supermercati più comuni, nemmeno a quelli che negli ultimi anni si sono attrezzati allestendo veri e propri reparti-enoteche. E poi, insomma, non amo particolarmente andare a pescare nelle cantine di aziende che fanno, nello specifico, 6milioni500mila bottiglie l'anno. Un caso più unico che raro, nel microframmentato panorama vitivinicolo del Piemonte di qualità.
Il tizio però mi dice di fidarmi, perché il Dolcetto La Lepre fa parte della nuova linea per la ristorazione di Fontanafredda, di assaggiarlo che al limite lo cambia. Ci mancherebbe. Lungi da me rompere i coglioni per motivi diversi dai classici evidenti difetti di conservazione.
E quel vino è perfetto. Già a una 'nasata rubata' offre un "intrigante ventaglio di frutta rossa, con una nota legnosa molto delicata, e un...".
"Ssssh. Silenzio - mi interrompe lei - Arrivano i piatti".
Diano d'Alba Doc Dolcetto 'La Lepre' 2008
...dicevamo, il vino veste il calice di un colore rosso rubino scuro con riflessi violacei. I profumi sono molto accattivanti e rivelano la natura del vitigno e un processo di lavorazione in cui l'affinamento nel legno ha avuto la sua parte senza tuttavia andare a coprire gli aromi primari dell'uva dolcetto. La sensazione iniziale è analoga a quella che si ha quando si apre un barattolo di confettura ai mirtilli. E poi more e ciliege, in maniera più sfumata, arricchite da un alito speziato di pepe nero. Sensazioni che tornano in bocca su un tessuto di morbido tannino e un nerbo di freschezza che invita alla beva e che termina con un piacevole finale di mandorle. Un vino perfetto con i primi piatti dal sapore deciso e speziato come i miei strangozzi veramente orgasmici, ed egregio anche per esaltare la succulenza di una tagliata. A un prezzo - 17 euro al ristorante, 12 in enoteca - piuttosto interessante.
Un Dolcetto senza scherzetto, insomma. Soprattutto se gustato in compagnia della lepre più deliziosa che ci sia...
La mia amica una bella tagliata di entrecote con ratatouille di verdure. Io strangozzi con pomodori, guanciale di Norcia e scaglie di grana 'intruso' di Todi.
E il vino? La lista ne suggeriva di diversi per regione ma il mio 'nordismo', almeno per quanto riguarda il mio 'schieramento enologico' totalmente difforme da quello politico, mi ha portato a dare un'occhiata tra Piemonte, Trentino e Friuli.
"Proviamo il Dolcetto d'Alba di Prunotto", ho detto al sommelier.
Questi è tornato tenendo tra le mani una bottiglia con una simpatica etichetta con scritto 'La Lepre' a caratteri pelosi.
"Prunotto l'ho finito. Se vuoi ho questo Dolcetto di Fontanafredda. E' molto buono".
Fontanafredda. Un nome che troppo spesso associo agli scaffali dei supermercati più comuni, nemmeno a quelli che negli ultimi anni si sono attrezzati allestendo veri e propri reparti-enoteche. E poi, insomma, non amo particolarmente andare a pescare nelle cantine di aziende che fanno, nello specifico, 6milioni500mila bottiglie l'anno. Un caso più unico che raro, nel microframmentato panorama vitivinicolo del Piemonte di qualità.
Il tizio però mi dice di fidarmi, perché il Dolcetto La Lepre fa parte della nuova linea per la ristorazione di Fontanafredda, di assaggiarlo che al limite lo cambia. Ci mancherebbe. Lungi da me rompere i coglioni per motivi diversi dai classici evidenti difetti di conservazione.
E quel vino è perfetto. Già a una 'nasata rubata' offre un "intrigante ventaglio di frutta rossa, con una nota legnosa molto delicata, e un...".
"Ssssh. Silenzio - mi interrompe lei - Arrivano i piatti".
Diano d'Alba Doc Dolcetto 'La Lepre' 2008
...dicevamo, il vino veste il calice di un colore rosso rubino scuro con riflessi violacei. I profumi sono molto accattivanti e rivelano la natura del vitigno e un processo di lavorazione in cui l'affinamento nel legno ha avuto la sua parte senza tuttavia andare a coprire gli aromi primari dell'uva dolcetto. La sensazione iniziale è analoga a quella che si ha quando si apre un barattolo di confettura ai mirtilli. E poi more e ciliege, in maniera più sfumata, arricchite da un alito speziato di pepe nero. Sensazioni che tornano in bocca su un tessuto di morbido tannino e un nerbo di freschezza che invita alla beva e che termina con un piacevole finale di mandorle. Un vino perfetto con i primi piatti dal sapore deciso e speziato come i miei strangozzi veramente orgasmici, ed egregio anche per esaltare la succulenza di una tagliata. A un prezzo - 17 euro al ristorante, 12 in enoteca - piuttosto interessante.
Un Dolcetto senza scherzetto, insomma. Soprattutto se gustato in compagnia della lepre più deliziosa che ci sia...
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