Non è che ne abbia provati proprio tanti, di Barbaresco. Ma la bottiglia che ho aperto ieri a Santo Stefano mi è proprio piaciuta e ha reso ancora più buoni gli avanzi di Natale. Che, a chiamarli avanzi, si fa un torto a chi muore di fame.
Tra i piatti che sono sfuggiti alla fame atavica dei convitati natalizi c'era una saporitissima corona di costine di maiale, del branzino al forno, forse un po' troppo ricco di salsa, e dello spezzatino di tonno, cotto in un delizioso sughetto leggermente piccante.
Tolta la bottiglia dalla mia gelida cantina solo una mezz'ora prima del pranzo, l'ho subito stappata e messa in tavola.
Poi ne ho versato un goccio nel mio calice, per tenere la temperatura sotto controllo.
Complice il freddo che inibisce le sensazioni olfattive dei grandi rossi da invecchiamento, questo vino ci ha messo un po' a riprendersi. Poi, grado dopo grado, ha cominciato a ingranare e a fare le debite presentazioni. Approfittando di una temperatura ancora sotto i 16 gradi, prima di dare l'assalto alla corona di costine ho voluto metterlo a confronto con i due piatti strutturati di pesce. E qui c'è stata la sorpresa. Non avrei mai pensato che un simile abbinamento potesse essere così sublime.
Stupendo anche, con un paio di gradi in più, accompagnato al secondo di carne.
Insomma, Barbaresco beverino? Ma sì, perché no!
Barbaresco Docg 2005 di Quazzolo Carlo
Colore rosso granato scarico con riflessi aranciati, bello limpido e consistente.
Naso in crescendo, ricco di sentori di frutta rossa matura, di fiori secchi, bergamotto e spezie come la cannella e i chiodi di garofano.
Gusto pieno e avvolgente, secco e morbido, moderatamente fresco e tannico, di bella sapidità. Buono il riscontro gusto-olfattivo.
Insomma, un Barbaresco essenziale e ben fatto, dalla struttura tannica piuttosto esile che esclude la possibilità di un lungo invecchiamento. Tuttavia è di beva piacevolissima e ha una grande territorialità. Un grande piemontese Docg a un prezzo assolutamente alla portata (di carne o di pesce): 14 € all'enoteca regionale di Barbaresco.
Nicola Taffuri
sabato 27 dicembre 2008
venerdì 19 dicembre 2008
Un brindisi speciale con lo Sforzato
L'ultimo venerdì lavorativo prima delle vacanze di Natale è solitamente riservato alle cene aziendali, più o meno tristi e fantozziane, in cui gli inossidabili ottimisti sperano sempre in qualche premio di produzione mentre gli irriducibili realisti sanno bene che, nella migliore delle ipotesi, arriverà un panettone dell'anno precedente.
Forse dico queste cattiverie per invidia, perché il vecchio editore per il quale ho lavorato per cinque anni era solito fare, invece, un mega-sorteggione sì fantozziano ma con ricchi premi come I-pod da 8 GB, supertelevisori e weekend a spasso nelle capitali europee.
Io per ben quattro volte su cinque ho vinto delle bottiglie di vino di poco conto e, quando dall'urna finalmente benevola si è deciso a spuntare un "finesettimana a Parigi", sono stato tanto fesso che l'ho regalato in famiglia. Tant'è.
Insomma, diciamocela chiara, rispetto a una formale cena aziendale è sempre meglio una bella degustazione tra amici. Specie quando il tempo da lupi rende automatico cercare un po' di autoconsolazione con vini rossi come lo Sforzato, capace di scaldare il cuore e rinfrancare l'animo.
Anche questa volta riporto il racconto appassionato di Anna Campidori, organizzatrice e protagonista, con la sorella Paola, di una degustazione orizzontale di Sforzati del 2001 presso l'Hotel ristorante San Gerolamo di Vercurago (Lc).
"Lento incedere verso l'apoteosi" - di Anna Campidori
"Un inizio soft, considerato quello che sarebbe venuto dopo. La degustazione è cominciata, infatti, con un “semplice” Valtellina superiore, Primi Raggi di Ar.pe.pe., gentile espressione del nebbiolo di montagna. Mi ha colpito per la sua eleganza e bevibilità tanto che, trasgredendo alle regole della degustazione per cui sarebbe consigliato lasciare nel bicchiere un po’ di vino per un successivo assaggio, il mio calice, come tanti altri, è rimasto vuoto.
Dopo questa piacevole entrée ci siamo accomodati a tavola, dove ci aspettavano quattro invitanti bicchieri colmi di vino rosso granato che fino a poco prima avevano riposato pazientemente nella cantina di Campidori Selections. Erano ordinatamente disposti secondo l’ordine previsto per la degustazione: Canua di Sertoli Salis, Fruttaio Ca’ Rizzieri di Rainoldi, Albareda di Mamete Prevostini ed il 5 Stelle di Nino Negri, tutti dell’annata 2001.
I vini erano accompagnati da uno splendido piatto di formaggi: ammetto di essermi dovuta trattenere a fatica dal fare un immediato assaggio per non falsare i sapori degli sforzati.
Difficile comunque sovrastare vini di tale potenza!
Il nebbiolo, appassito sui graticci, si carica di sapore, di concentrazione, di alcolicità, diventando nello sforzato vino imponente e robusto, ma dall’immensa piacevolezza.
La cosa più interessante dell’orizzontale è stata constatare come un vino proveniente dalla stessa zona, della stessa annata, dello stesso vitigno utilizzato in purezza si esprimesse in modo tanto diverso.
A Canua di Sertoli Salis, più “beverino” rispetto agli altri, pulito, dal sapore di marasca ma mai “marmellatoso”, è seguito Fruttaio Carizzieri di Rainoldi, più robusto, che regalava al palato le dolci note di barrique in cui questo sforzato riposa per 15 mesi.
L’Albareda riempiva invece la bocca con sentori di uva passa, frutta in confettura, incantando con il suo tocco caldo e vigoroso.
Come tanti altri ospiti presenti alla serata, che già conoscevano e amavano gli sforzati, ho aspettato di gustarmi questi vini prima di passare all’ultimo assaggio: lo Sforzato 5 stelle di Nino Negri.
Un’attesa giustificata dalla consapevolezza di trovarmi di fronte ad uno sforzato completamente diverso dai precedenti, che ha invaso il palato con il vigore di fiume in piena, inondandolo con un’evoluzione di sapori di frutta matura, in confettura, liquirizia e note speziate. Robusto e imponente come le montagne della Valtellina, ma anche vellutato, morbido ed elegante.
Un finale trionfale coronato dal più azzeccato dei connubi: un fumante piatto di pizzoccheri."
Forse dico queste cattiverie per invidia, perché il vecchio editore per il quale ho lavorato per cinque anni era solito fare, invece, un mega-sorteggione sì fantozziano ma con ricchi premi come I-pod da 8 GB, supertelevisori e weekend a spasso nelle capitali europee.
Io per ben quattro volte su cinque ho vinto delle bottiglie di vino di poco conto e, quando dall'urna finalmente benevola si è deciso a spuntare un "finesettimana a Parigi", sono stato tanto fesso che l'ho regalato in famiglia. Tant'è.
Insomma, diciamocela chiara, rispetto a una formale cena aziendale è sempre meglio una bella degustazione tra amici. Specie quando il tempo da lupi rende automatico cercare un po' di autoconsolazione con vini rossi come lo Sforzato, capace di scaldare il cuore e rinfrancare l'animo.
Anche questa volta riporto il racconto appassionato di Anna Campidori, organizzatrice e protagonista, con la sorella Paola, di una degustazione orizzontale di Sforzati del 2001 presso l'Hotel ristorante San Gerolamo di Vercurago (Lc).
"Lento incedere verso l'apoteosi" - di Anna Campidori
"Un inizio soft, considerato quello che sarebbe venuto dopo. La degustazione è cominciata, infatti, con un “semplice” Valtellina superiore, Primi Raggi di Ar.pe.pe., gentile espressione del nebbiolo di montagna. Mi ha colpito per la sua eleganza e bevibilità tanto che, trasgredendo alle regole della degustazione per cui sarebbe consigliato lasciare nel bicchiere un po’ di vino per un successivo assaggio, il mio calice, come tanti altri, è rimasto vuoto.
Dopo questa piacevole entrée ci siamo accomodati a tavola, dove ci aspettavano quattro invitanti bicchieri colmi di vino rosso granato che fino a poco prima avevano riposato pazientemente nella cantina di Campidori Selections. Erano ordinatamente disposti secondo l’ordine previsto per la degustazione: Canua di Sertoli Salis, Fruttaio Ca’ Rizzieri di Rainoldi, Albareda di Mamete Prevostini ed il 5 Stelle di Nino Negri, tutti dell’annata 2001.
I vini erano accompagnati da uno splendido piatto di formaggi: ammetto di essermi dovuta trattenere a fatica dal fare un immediato assaggio per non falsare i sapori degli sforzati.
Difficile comunque sovrastare vini di tale potenza!
Il nebbiolo, appassito sui graticci, si carica di sapore, di concentrazione, di alcolicità, diventando nello sforzato vino imponente e robusto, ma dall’immensa piacevolezza.
La cosa più interessante dell’orizzontale è stata constatare come un vino proveniente dalla stessa zona, della stessa annata, dello stesso vitigno utilizzato in purezza si esprimesse in modo tanto diverso.
A Canua di Sertoli Salis, più “beverino” rispetto agli altri, pulito, dal sapore di marasca ma mai “marmellatoso”, è seguito Fruttaio Carizzieri di Rainoldi, più robusto, che regalava al palato le dolci note di barrique in cui questo sforzato riposa per 15 mesi.
L’Albareda riempiva invece la bocca con sentori di uva passa, frutta in confettura, incantando con il suo tocco caldo e vigoroso.
Come tanti altri ospiti presenti alla serata, che già conoscevano e amavano gli sforzati, ho aspettato di gustarmi questi vini prima di passare all’ultimo assaggio: lo Sforzato 5 stelle di Nino Negri.
Un’attesa giustificata dalla consapevolezza di trovarmi di fronte ad uno sforzato completamente diverso dai precedenti, che ha invaso il palato con il vigore di fiume in piena, inondandolo con un’evoluzione di sapori di frutta matura, in confettura, liquirizia e note speziate. Robusto e imponente come le montagne della Valtellina, ma anche vellutato, morbido ed elegante.
Un finale trionfale coronato dal più azzeccato dei connubi: un fumante piatto di pizzoccheri."
martedì 16 dicembre 2008
Un rosso buono a 360 gradi
L'altro giorno, domenica, mi sono trascinato giù dal letto alle 11 passate, con in bocca ancora l'amaro delle 3 birre medie che mi ero bevuto qualche ora prima, durante e dopo il concerto pazzesco del gruppo pesarese dei Cheap Wine. In italiano, "vino economico". Del resto, quando ti offrono da bere, pare brutto non ricambiare, no?
Il cerchio alla testa e un vago senso di nausea mi hanno fatto subito pensare "oggi riso in bianco e patate lesse". Mentre scendevo le scale, tuttavia, il caldo e profumato tepore proveniente dalla cucina ha mandato lentamente in fumo, gradino dopo gradino, i miei propositi dietetici. Appurato che in pentola stava rosolando lentamente un enorme polpettone, mentre il forno era già pronto per accogliere due teglie di patate con aglio, rosmarino e aromi vari, ho deciso di prolungare la mia discesa alla realtà di un'altra rampa di scale. Sono andato in cantina a cercare un vino rosso in grado di celebrare degnamente l'amorevole sforzo culinario materno.
Dopo una breve occhiata alla cantinetta e l'amara - anche questa! - constatazione che sarebbe stato difficile averne a sufficienza per tutte le alzate di calici dell'incombente perido festivo, ho deciso di sacrificare per il mio polpettone con patate un vino rosso della tenuta Bosco del Merlo di Annone Veneto, dal 1977 fiore all'occhiello delle Cantine Paladin.
Gusto internazionale a tutto tondo
Il Ruber Capite è un Igt Delle Venezie, frutto di un particolare taglio bordolese di uve cabernet sauvignon, cabernet franc, merlot e malbech. Io ho assaggiato l'annata 2003 e, nonostante i 5 anni e più trascorsi dalla vendemmia, mi è sembrata essere ancora in grande forma.
Colore rosso granato molto scuro e consistente, profumi eleganti per finezza, intensità e complessità. Servito a 16 gradi si dà tempo al vino di svelarci poco alla volta le ricche sfumature aromatiche che lo caratterizzano. Le sensazioni fruttate di prugna e ciliegia matura si integrano bene con le note erbacee del cabernet franc, e vanno ad arricchirsi di pregevoli note speziate di cuoio, pepe verde e, soprattutto, di tabacco dolce.
In bocca rispetta in pieno le ottime aspettative avute al naso, è rotondo e facile da bere, anche in virtù di una componente alcolica aggraziata (13%). Buona la persistenza, davvero eccellente il "tete à tete" con il polpettone di vitello e salsiccia e con le patate al forno. Ah, dimenticavo. Ottimo pure con il pecorino di media stagionatura che ha fatto da dessert, prima del caffé finale. Niente ammazzacaffé, del resto ero a dieta, no?
Prezzo del vino: 18 euro in enoteca. Mica tanto cheap ma decisamente good...
Nicola Taffuri
Il cerchio alla testa e un vago senso di nausea mi hanno fatto subito pensare "oggi riso in bianco e patate lesse". Mentre scendevo le scale, tuttavia, il caldo e profumato tepore proveniente dalla cucina ha mandato lentamente in fumo, gradino dopo gradino, i miei propositi dietetici. Appurato che in pentola stava rosolando lentamente un enorme polpettone, mentre il forno era già pronto per accogliere due teglie di patate con aglio, rosmarino e aromi vari, ho deciso di prolungare la mia discesa alla realtà di un'altra rampa di scale. Sono andato in cantina a cercare un vino rosso in grado di celebrare degnamente l'amorevole sforzo culinario materno.
Dopo una breve occhiata alla cantinetta e l'amara - anche questa! - constatazione che sarebbe stato difficile averne a sufficienza per tutte le alzate di calici dell'incombente perido festivo, ho deciso di sacrificare per il mio polpettone con patate un vino rosso della tenuta Bosco del Merlo di Annone Veneto, dal 1977 fiore all'occhiello delle Cantine Paladin.
Gusto internazionale a tutto tondo
Il Ruber Capite è un Igt Delle Venezie, frutto di un particolare taglio bordolese di uve cabernet sauvignon, cabernet franc, merlot e malbech. Io ho assaggiato l'annata 2003 e, nonostante i 5 anni e più trascorsi dalla vendemmia, mi è sembrata essere ancora in grande forma.
Colore rosso granato molto scuro e consistente, profumi eleganti per finezza, intensità e complessità. Servito a 16 gradi si dà tempo al vino di svelarci poco alla volta le ricche sfumature aromatiche che lo caratterizzano. Le sensazioni fruttate di prugna e ciliegia matura si integrano bene con le note erbacee del cabernet franc, e vanno ad arricchirsi di pregevoli note speziate di cuoio, pepe verde e, soprattutto, di tabacco dolce.
In bocca rispetta in pieno le ottime aspettative avute al naso, è rotondo e facile da bere, anche in virtù di una componente alcolica aggraziata (13%). Buona la persistenza, davvero eccellente il "tete à tete" con il polpettone di vitello e salsiccia e con le patate al forno. Ah, dimenticavo. Ottimo pure con il pecorino di media stagionatura che ha fatto da dessert, prima del caffé finale. Niente ammazzacaffé, del resto ero a dieta, no?
Prezzo del vino: 18 euro in enoteca. Mica tanto cheap ma decisamente good...
Nicola Taffuri
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martedì 9 dicembre 2008
Alla scoperta della ricetta del Braulio
L'amaro Braulio è uno dei liquori più antichi d'Italia. Nacque nel 1875, ben 100 anni prima del sottoscritto, dal genio di Francesco Peloni, che aveva deciso di seguire anch'egli la via del padre farmacista in quel di Bormio, nell'alta Valtellina.
Non bisogna quindi scandalizzarsi se i palati meno allenati alle degustazioni, quando bevono un sorso di amaro, azzardano frasi del tipo "sa di sciroppo per la tosse". Per forza, niente di più facile che l'abbia fatto un monaco, un alchimista o un moderno farmacista.
Mia sorella, per esempio, che in passato ha avuto qualche guaio con le tonsille, ha detto che il Braulio le fa schifo perché le ricorda il propoli. In realtà non le piace perché associa il suo sapore ai febbroni e ai mal di gola patiti da bambina, quando i nostri genitori le spalmavano le tonsille con l'alcolicissima "tintura delle api".
Effettivamente la nota di propoli è innegabile. Così come è altrettanto evidente l'aroma del ginepro, della menta, della canfora e della resina di pino. Ma quali sono gli ingredienti del Braulio?
La ricetta, ovviamente, è segreta. Del resto mica si può pretendere che, dopo anni e anni passati ad andar per bacche e a distillare radici, si sia disposti a cedere a chicchessia la ricetta del tanto agognato "elisir di lunga vita".
Di certo si sa che il segreto del Braulio sta nel gioco virtuoso tra l'acqua di Bormio, la sapiente distillazione di erbe, bacche e radici che crescono alle pendici del monte Braulio, nel Parco Nazionale dello Stelvio, e, infine, nell'invecchiamento del liquore in botti di legno di rovere di Slavonia.
Da tempo la forte richiesta commerciale ha imposto di andare a raccogliere gli ingredienti altrove. Il farmacista, insomma, si è fatto industriale. Però nulla ha tolto alla genuinità e alla tipicità del prodotto.
Del resto la stessa cosa è accaduta anche per un'altra specialità della Valtellina, la Bresaola, proveniente ormai interamente da tagli di manzi argentini.
Tornando alla ricetta, con un po' di attenzione e un pizzico di malizia non è così difficile cogliere alcuni degli ingredienti fondamentali. Il nostro campo di ricerca, infatti, dovrà per forza di cose essere limitato alla vegetazione di questa zona alpina.
Io scommetto su ginepro, genziana, achillea moscata, menta piperita.
Rilancio sul propoli e sull'artemisia, la stessa del Genepì (altro liquore alpino) e dell'assenzio, l'elisir proibito tanto amato dai poeti maledetti.
Infine butto sul tavolo la carta della rosa canina e quella della liquirizia.
Forza, compratevi una bottiglia (c.ca 9 € quella da 0,70 l.) e giocate con me. Non amo fare i solitari.
N.T.
Non bisogna quindi scandalizzarsi se i palati meno allenati alle degustazioni, quando bevono un sorso di amaro, azzardano frasi del tipo "sa di sciroppo per la tosse". Per forza, niente di più facile che l'abbia fatto un monaco, un alchimista o un moderno farmacista.
Mia sorella, per esempio, che in passato ha avuto qualche guaio con le tonsille, ha detto che il Braulio le fa schifo perché le ricorda il propoli. In realtà non le piace perché associa il suo sapore ai febbroni e ai mal di gola patiti da bambina, quando i nostri genitori le spalmavano le tonsille con l'alcolicissima "tintura delle api".
Effettivamente la nota di propoli è innegabile. Così come è altrettanto evidente l'aroma del ginepro, della menta, della canfora e della resina di pino. Ma quali sono gli ingredienti del Braulio?
La ricetta, ovviamente, è segreta. Del resto mica si può pretendere che, dopo anni e anni passati ad andar per bacche e a distillare radici, si sia disposti a cedere a chicchessia la ricetta del tanto agognato "elisir di lunga vita".
Di certo si sa che il segreto del Braulio sta nel gioco virtuoso tra l'acqua di Bormio, la sapiente distillazione di erbe, bacche e radici che crescono alle pendici del monte Braulio, nel Parco Nazionale dello Stelvio, e, infine, nell'invecchiamento del liquore in botti di legno di rovere di Slavonia.
Da tempo la forte richiesta commerciale ha imposto di andare a raccogliere gli ingredienti altrove. Il farmacista, insomma, si è fatto industriale. Però nulla ha tolto alla genuinità e alla tipicità del prodotto.
Del resto la stessa cosa è accaduta anche per un'altra specialità della Valtellina, la Bresaola, proveniente ormai interamente da tagli di manzi argentini.
Tornando alla ricetta, con un po' di attenzione e un pizzico di malizia non è così difficile cogliere alcuni degli ingredienti fondamentali. Il nostro campo di ricerca, infatti, dovrà per forza di cose essere limitato alla vegetazione di questa zona alpina.
Io scommetto su ginepro, genziana, achillea moscata, menta piperita.
Rilancio sul propoli e sull'artemisia, la stessa del Genepì (altro liquore alpino) e dell'assenzio, l'elisir proibito tanto amato dai poeti maledetti.
Infine butto sul tavolo la carta della rosa canina e quella della liquirizia.
Forza, compratevi una bottiglia (c.ca 9 € quella da 0,70 l.) e giocate con me. Non amo fare i solitari.
N.T.
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giovedì 4 dicembre 2008
Ritorni di capra su fumi alcolici
Che nottata. Trascorsa attaccato alla bottiglia dell'acqua minerale, a ripensare a quanto era buono quel fatidico "bis" di superbo gorgonzola di capra servito a chiusura della serata, principale imputato per l'arsura notturna. Mi sono sentito come quel tizio della pubblicità del digestivo Brioschi che si sveglia di soprassalto con un cinghiale - che poi hanno sbagliato xché pare trattasi di facocero - sopra le coperte. Solo che nel mio caso l'animale era un caprone.
A spasso nel girone dei Golosi
La serata era cominciata con degli spuntini di lardo accompagnati egregiamente da una fresca flute di Clarius Rosé Brut della trentina Concilio. E uno.
Un piatto di antipasti super con bresaola d'anatra, salame di cinghiale, speck d'oca, fegato d'oca e altre prelibatezze dal sapore deciso e tendente al dolce ci hanno indirizzati verso lo Chardonnay Yarden, un israeliano di straordinaria struttura e freschezza. E due.
Poi un sorso, giusto uno!, d'acqua e via alla degustazione alla cieca di quattro rossi, cercando di indovinare in quale ordine erano stati serviti un Chianti, un Cabernet, un Aglianico e un Primitivo.
Ok, lo ammetto. A naso ho azzeccato solo il Cabernet, e che Cabernet, visto che era quello de Le Vigne di Zamò, straordinaria azienda del Collio Goriziano. Fortuna che le mie delusioni da aspirante sommelier hanno trovato degna consolazione con un filetto di manzo morbido come il burro, alto due dita e avvolto nello speck. Bagnato con, oltre al Cabernet: un Chianti Classico Riserva di Fattoria di Petrognano, dell'amico Pietro Pellegrini. Un Primitivo anzi "il" Primitivo di Conti Zecca, visto che nella tipologia è difficile trovare di meglio.
Discorso analogo per l'Aglianico del Vulture Il Repertorio di Cantine del Notaio, anch'esso un "must" assoluto nella sua denominazione. E con questi sono sei vini.
E' tempo di dessert. Dolci? Macché. Si va di formaggi, sei assaggi in tutto, tra i quali il più leggero era un caprino come si deve, mica di vacca ma di capra...
Immolato l'ultimo sorso di Chianti con un latteria della Valtellina, mi sono concentrato su quello che Fabio Folonaro, titolare e sommelier del Ristorante Il Tetto Bianzolo, il nostro Virgilio che ci ha condotti in questa passeggiata nel girone dei golosi, ha presentato come un "azzardo".
Un formaggio stagionato nelle vinacce, simile al Castelmagno. E, soprattutto, un rarissimo gorgonzola di capra. Da intingere nel miele o nella mostarda e da provare con un San Martino della Battaglia Passito. Delirio dei sensi che ha meritato un bis.
Dopodiché la sete di curiosità degli scalmanati convitati ha preso il sopravvento sul buonsenso che suggeriva "caffé doppio e tutti a casa". Abbiamo degustato la Tripple, una magnifica birra belga da 7,5°, poi uno Sherry, un Whisky torbato scozzese, ancora bollicine trentine con il Ferrari Perlé, e infine un bicchierino del Greco di Bianco di Vintripodi, un passito da centellinare enumerando una a una le sue mille sfumature.
A mente - quasi - lucida, non sono più tanto convinto che l'arsura notturna sia stata provocata da due pezzettini di delizioso gorgonzola di capra...espiatoria.
N.T.
A spasso nel girone dei Golosi
La serata era cominciata con degli spuntini di lardo accompagnati egregiamente da una fresca flute di Clarius Rosé Brut della trentina Concilio. E uno.
Un piatto di antipasti super con bresaola d'anatra, salame di cinghiale, speck d'oca, fegato d'oca e altre prelibatezze dal sapore deciso e tendente al dolce ci hanno indirizzati verso lo Chardonnay Yarden, un israeliano di straordinaria struttura e freschezza. E due.
Poi un sorso, giusto uno!, d'acqua e via alla degustazione alla cieca di quattro rossi, cercando di indovinare in quale ordine erano stati serviti un Chianti, un Cabernet, un Aglianico e un Primitivo.
Ok, lo ammetto. A naso ho azzeccato solo il Cabernet, e che Cabernet, visto che era quello de Le Vigne di Zamò, straordinaria azienda del Collio Goriziano. Fortuna che le mie delusioni da aspirante sommelier hanno trovato degna consolazione con un filetto di manzo morbido come il burro, alto due dita e avvolto nello speck. Bagnato con, oltre al Cabernet: un Chianti Classico Riserva di Fattoria di Petrognano, dell'amico Pietro Pellegrini. Un Primitivo anzi "il" Primitivo di Conti Zecca, visto che nella tipologia è difficile trovare di meglio.
Discorso analogo per l'Aglianico del Vulture Il Repertorio di Cantine del Notaio, anch'esso un "must" assoluto nella sua denominazione. E con questi sono sei vini.
E' tempo di dessert. Dolci? Macché. Si va di formaggi, sei assaggi in tutto, tra i quali il più leggero era un caprino come si deve, mica di vacca ma di capra...
Immolato l'ultimo sorso di Chianti con un latteria della Valtellina, mi sono concentrato su quello che Fabio Folonaro, titolare e sommelier del Ristorante Il Tetto Bianzolo, il nostro Virgilio che ci ha condotti in questa passeggiata nel girone dei golosi, ha presentato come un "azzardo".
Un formaggio stagionato nelle vinacce, simile al Castelmagno. E, soprattutto, un rarissimo gorgonzola di capra. Da intingere nel miele o nella mostarda e da provare con un San Martino della Battaglia Passito. Delirio dei sensi che ha meritato un bis.
Dopodiché la sete di curiosità degli scalmanati convitati ha preso il sopravvento sul buonsenso che suggeriva "caffé doppio e tutti a casa". Abbiamo degustato la Tripple, una magnifica birra belga da 7,5°, poi uno Sherry, un Whisky torbato scozzese, ancora bollicine trentine con il Ferrari Perlé, e infine un bicchierino del Greco di Bianco di Vintripodi, un passito da centellinare enumerando una a una le sue mille sfumature.
A mente - quasi - lucida, non sono più tanto convinto che l'arsura notturna sia stata provocata da due pezzettini di delizioso gorgonzola di capra...espiatoria.
N.T.
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Vino
venerdì 28 novembre 2008
Natale, il vino in libreria
Arriva la neve, dicembre è alle porte e l'apertura domenicale di negozi e centri commerciali annuncia che la corsa ai regali natalizi sta per cominciare.
Più che una corsa una toccata e fuga, visto che, a giudicare da quanto dicono statistiche ed economisti, la recessione inciderà negativamente anche sui tradizionali acquisti di fine anno. Per fortuna basta poco per fare contento un appassionato di vino. A me basta anche un libro. Sul vino, naturalmente...
Mai come in questo periodo dell'anno le librerie sono strapiene di romanzi, racconti, guide e pubblicazioni di ogni tipo ad esso dedicate. Ecco allora qualche consiglio per gli acquisti.
Cominciamo con la voluminosa Duemilavini 2009, redatta dai degustatori dell'Ais, l'Associazione italiana sommelier, e da dieci anni la più titolata tra le guide del settore che vogliono premiare i migliori vini d'Italia.
In tutto 1.800 pagine dove trovano spazio 1.600 aziende vinicole per un totale di 16mila vini recensiti con tanto di voto e indicazione sul loro abbinamento con il cibo. A fare incetta degli ambiti 5 grappoli, 319 in tutta la Penisola, troviamo il Piemonte con i suoi Barolo e Barbaresco, seguito a distanza dalla Toscana, forte di una buona selezione di Chianti e Brunello. Ma all'occhio più esperto non sfuggiranno interessanti new-entry e clamorose bocciature. Bibenda Editore, 32 euro.
Restando in tema di classifiche, ecco una lettura piacevole e istruttiva dedicata alle "Memorie di un assaggiatore di vini" alias Daniele Cernilli, esperto giornalista enogastronomico.
Imperdibile per chi si sta avvicinando ora al mondo del vino, il libro è una simpatica e scorrevole autobiografia scritta per etichette di tutto il mondo, divise per fasce di prezzo, che l'autore co-fondatore del Gambero Rosso ha assaggiato nel corso della sua vita.
Dal retro di copertina: "Come comportarsi se sulla lavagna di un ristorante di New York sono scritti 6 vini italiani, 4 francesi, 2 cileni e 5 californiani? Questa guida al mondo del vino ci spiega che cosa si deve o non si deve fare, i vizi e le virtù, i buoni e i cattivi maestri e quali sono i vini di tutto il mondo da conoscere in ogni loro segreto per sapersi orientare. Una carrellata scherzosa sui "tipi" ideali di assaggiatori e degustatori, che mette in guardia dai tic e permette di riconoscere il falso esperto." Einaudi, 12 euro.
Non ha la quarantennale esperienza di Cernilli ma Andrea Scanzi, classe 1974, con il suo "Elogio dell'invecchiamento", promette di continuare quella tradizione di appassionati scrittori di vino che ha avuto in Luigi Veronelli e Mario Soldati i primi "maestri sul campo".
Il libro è un viaggio alla scoperta dei dieci vini più importanti d'Italia. Barolo, Amarone, Sassicaia, Franciacorta, Trebbiano d'Abruzzo, Picolit, Lambrusco, Aglianico, Brunello, Sfursat. Perché sono così famosi? Quali le loro caratteristiche? Parallelamente, il volume svela cosa si cela dietro le quinte del mondo del vino, in una sorta di bignami del bravo sommelier. Mondadori, 15,50 euro.
Infine, tra i consigli per gli acquisti, non poteva mancare il capolavoro di Mario Soldati, il celebre scrittore, regista e sceneggiatore torinese morto nel 1999 più che novantenne, longevo come il più straordinario dei Barolo. Nel corso della sua vita fuori dal comune realizzò una serie di documentari televisivi dedicati alle regioni vinicole d'Italia, coniando la nuova figura del reporter enogastronomico, sino ad allora sconosciuta. Il racconto di questi viaggi diedero vita nel 1969 al romanzo "Vino al vino", scritto dallo stesso Soldati e fonte inesauribile di spunto per qualsiasi aspirante giornalista enogastronomico del giorno d'oggi. Mondadori, 15,80 euro.
Nicola Taffuri
Più che una corsa una toccata e fuga, visto che, a giudicare da quanto dicono statistiche ed economisti, la recessione inciderà negativamente anche sui tradizionali acquisti di fine anno. Per fortuna basta poco per fare contento un appassionato di vino. A me basta anche un libro. Sul vino, naturalmente...
Mai come in questo periodo dell'anno le librerie sono strapiene di romanzi, racconti, guide e pubblicazioni di ogni tipo ad esso dedicate. Ecco allora qualche consiglio per gli acquisti.
Cominciamo con la voluminosa Duemilavini 2009, redatta dai degustatori dell'Ais, l'Associazione italiana sommelier, e da dieci anni la più titolata tra le guide del settore che vogliono premiare i migliori vini d'Italia.
In tutto 1.800 pagine dove trovano spazio 1.600 aziende vinicole per un totale di 16mila vini recensiti con tanto di voto e indicazione sul loro abbinamento con il cibo. A fare incetta degli ambiti 5 grappoli, 319 in tutta la Penisola, troviamo il Piemonte con i suoi Barolo e Barbaresco, seguito a distanza dalla Toscana, forte di una buona selezione di Chianti e Brunello. Ma all'occhio più esperto non sfuggiranno interessanti new-entry e clamorose bocciature. Bibenda Editore, 32 euro.
Restando in tema di classifiche, ecco una lettura piacevole e istruttiva dedicata alle "Memorie di un assaggiatore di vini" alias Daniele Cernilli, esperto giornalista enogastronomico.
Imperdibile per chi si sta avvicinando ora al mondo del vino, il libro è una simpatica e scorrevole autobiografia scritta per etichette di tutto il mondo, divise per fasce di prezzo, che l'autore co-fondatore del Gambero Rosso ha assaggiato nel corso della sua vita.
Dal retro di copertina: "Come comportarsi se sulla lavagna di un ristorante di New York sono scritti 6 vini italiani, 4 francesi, 2 cileni e 5 californiani? Questa guida al mondo del vino ci spiega che cosa si deve o non si deve fare, i vizi e le virtù, i buoni e i cattivi maestri e quali sono i vini di tutto il mondo da conoscere in ogni loro segreto per sapersi orientare. Una carrellata scherzosa sui "tipi" ideali di assaggiatori e degustatori, che mette in guardia dai tic e permette di riconoscere il falso esperto." Einaudi, 12 euro.
Non ha la quarantennale esperienza di Cernilli ma Andrea Scanzi, classe 1974, con il suo "Elogio dell'invecchiamento", promette di continuare quella tradizione di appassionati scrittori di vino che ha avuto in Luigi Veronelli e Mario Soldati i primi "maestri sul campo".
Il libro è un viaggio alla scoperta dei dieci vini più importanti d'Italia. Barolo, Amarone, Sassicaia, Franciacorta, Trebbiano d'Abruzzo, Picolit, Lambrusco, Aglianico, Brunello, Sfursat. Perché sono così famosi? Quali le loro caratteristiche? Parallelamente, il volume svela cosa si cela dietro le quinte del mondo del vino, in una sorta di bignami del bravo sommelier. Mondadori, 15,50 euro.
Infine, tra i consigli per gli acquisti, non poteva mancare il capolavoro di Mario Soldati, il celebre scrittore, regista e sceneggiatore torinese morto nel 1999 più che novantenne, longevo come il più straordinario dei Barolo. Nel corso della sua vita fuori dal comune realizzò una serie di documentari televisivi dedicati alle regioni vinicole d'Italia, coniando la nuova figura del reporter enogastronomico, sino ad allora sconosciuta. Il racconto di questi viaggi diedero vita nel 1969 al romanzo "Vino al vino", scritto dallo stesso Soldati e fonte inesauribile di spunto per qualsiasi aspirante giornalista enogastronomico del giorno d'oggi. Mondadori, 15,80 euro.
Nicola Taffuri
martedì 25 novembre 2008
Boccadigabbia, marchigiani imperiali
Già Napoleone Bonaparte aveva capito che si trattava di terreni agricoli altamente vocati e, dopo averli espropriati alle congregazioni religiose, li aveva fatti catalogare al n°46 tra i circa 100 Poderi "demaniali" della zona di Civitanova Marche.
Il possedimento passò poi all'Imperatore Napoleone III il quale, intorno al 1850, ne affidò la gestione all’ingegner Paul Hallaire, esperto vitivinicoltore, il quale trasferì in loco il savoir faire enologico d'Oltralpe, oltre a un numero di vitigni ai giorni nostri definiti internazionali, come cabernet, merlot e pinot nero.
In queste stesse terre l'azienda marchigiana Boccadigabbia, di proprietà di Elvidio Alessandri, che si affida all'enologo Fabrizio Ciufoli, prosegue oggi quella solida tradizione vitivinicola, regalandoci ogni anno alcuni dei migliori vini d'Italia. Quindi d'Europa, quindi del mondo, come direbbe il mitico sommelier Guido Invernizzi.
Straordinari il Cabernet Sauvignon "Akronte", il Merlot "Pix" e il Pinot Nero "Il Girone". Eccellenti anche i bianchi come lo Chardonnay "Montalperti" e la Ribona "Le Grane", un autoctono che ho a cuore e che meriterà un post a parte.
In questa occasione voglio invece spendere due parole sul "Saltapicchio", un blend sangiovese e merlot che mi è capitato di assaggiare nei giorni scorsi.
Marche Igt Sangiovese e Merlot "Saltapicchio" 2005
Già dal colore rosso cupo molto denso e consistente si capisce che si è al cospetto di un vino importante.
I profumi sono intensi e complessi. Su tutte spiccano le evidenti sensazioni di more, mirtilli e amarene sotto spirito, seguite da un coro di altri sentori più sfumati che vanno dalla resina di pino, al cuoio, all'humus, fino alle speziature che ricordano la stecca di liquerizia, la china e la cannella.
In bocca è molto caldo e morbido, sapido e con tannino rotondo.
A voler essere pignoli la decisa componente alcolica e una leggera nota "legnosa" impediscono a questo vino di raggiungere l'eleganza dei fuoriclasse. Ciò non toglie che con soltanto 12 euro ci beviamo un grande rosso compagno ideale di carni alla griglia e primi piatti di carne, anche piccanti. Occhio all'annata. Per la 2005 i tempi sono maturi, beviamola entro fine 2009.
Nicola Taffuri
Il possedimento passò poi all'Imperatore Napoleone III il quale, intorno al 1850, ne affidò la gestione all’ingegner Paul Hallaire, esperto vitivinicoltore, il quale trasferì in loco il savoir faire enologico d'Oltralpe, oltre a un numero di vitigni ai giorni nostri definiti internazionali, come cabernet, merlot e pinot nero.
In queste stesse terre l'azienda marchigiana Boccadigabbia, di proprietà di Elvidio Alessandri, che si affida all'enologo Fabrizio Ciufoli, prosegue oggi quella solida tradizione vitivinicola, regalandoci ogni anno alcuni dei migliori vini d'Italia. Quindi d'Europa, quindi del mondo, come direbbe il mitico sommelier Guido Invernizzi.
Straordinari il Cabernet Sauvignon "Akronte", il Merlot "Pix" e il Pinot Nero "Il Girone". Eccellenti anche i bianchi come lo Chardonnay "Montalperti" e la Ribona "Le Grane", un autoctono che ho a cuore e che meriterà un post a parte.
In questa occasione voglio invece spendere due parole sul "Saltapicchio", un blend sangiovese e merlot che mi è capitato di assaggiare nei giorni scorsi.
Marche Igt Sangiovese e Merlot "Saltapicchio" 2005
Già dal colore rosso cupo molto denso e consistente si capisce che si è al cospetto di un vino importante.
I profumi sono intensi e complessi. Su tutte spiccano le evidenti sensazioni di more, mirtilli e amarene sotto spirito, seguite da un coro di altri sentori più sfumati che vanno dalla resina di pino, al cuoio, all'humus, fino alle speziature che ricordano la stecca di liquerizia, la china e la cannella.
In bocca è molto caldo e morbido, sapido e con tannino rotondo.
A voler essere pignoli la decisa componente alcolica e una leggera nota "legnosa" impediscono a questo vino di raggiungere l'eleganza dei fuoriclasse. Ciò non toglie che con soltanto 12 euro ci beviamo un grande rosso compagno ideale di carni alla griglia e primi piatti di carne, anche piccanti. Occhio all'annata. Per la 2005 i tempi sono maturi, beviamola entro fine 2009.
Nicola Taffuri
venerdì 21 novembre 2008
Ascheri, grandi Barolo e una passione per il Rodano
Giacomo Ascheri è un omaccione accogliente e gioviale, erede di una rinomata famiglia di barolisti, della quale continua a essere un fiero esponente con fior di riconoscimenti annuali da parte di guide e concorsi enologici. Tuttavia ciò non gli impedisce di coltivare in casa, dalle parti di Bra (Cuneo), anche la passione per le uve francesi syrah e viognier, molto diffuse nella Valle del Rodano.
In attesa che si presenti quanto prima l'occasione giusta per stappare il suo Barolo Docg 2004 Sorano, pluripremiato dalle varie guide dell'Ais, dell'Espresso e di Veronelli, quest'oggi ho deciso di "immolare" una bottiglia del suo Langhe Doc Bianco Viognier Podere di Montalupa 2004 per accompagnare una bella orata in padella. Ero davvero curioso di conoscere questo stranissimo "gemellaggio fluviale" tra il Rodano e il Tanaro.
Bianco da invecchiamento
Colore giallo paglierino molto intenso e brillante, naso ricco, intenso e complesso. Appena versato nel bicchiere il vino era ancora assopito dopo 4 anni trascorsi tra acciaio, rovere e bottiglia, poi ha fatto le debite presentazioni.
Poco alla volta, ha aperto un ampio ventaglio di profumi fruttati, floreali e speziati con note evidenti di pesca gialla, albicocca, fiori d'acacia, ben accompagnati da fini sentori speziati di liquirizia dolce che mi hanno fatto ricordare le rotelle Haribo.
Sensazioni che ho ritrovato in bocca, amalgamate in un corpo elegante di ottima freschezza, morbidezza e sapidità, con un'acidità ancora vispa che fa presagire che la storia di questa annata sia destinata a durare ancora almeno un paio d'anni.
Buono con l'orata, immagino sia con i crostacei e con i formaggi caprini freschi che questo vino possa dare il meglio di sé. Spingendoci, magari tra un altro annetto, verso formaggi di pecora maggiormente stagionati e piccanti. Prezzo in enoteca: circa 15-18 euro.
Nicola Taffuri
In attesa che si presenti quanto prima l'occasione giusta per stappare il suo Barolo Docg 2004 Sorano, pluripremiato dalle varie guide dell'Ais, dell'Espresso e di Veronelli, quest'oggi ho deciso di "immolare" una bottiglia del suo Langhe Doc Bianco Viognier Podere di Montalupa 2004 per accompagnare una bella orata in padella. Ero davvero curioso di conoscere questo stranissimo "gemellaggio fluviale" tra il Rodano e il Tanaro.
Bianco da invecchiamento
Colore giallo paglierino molto intenso e brillante, naso ricco, intenso e complesso. Appena versato nel bicchiere il vino era ancora assopito dopo 4 anni trascorsi tra acciaio, rovere e bottiglia, poi ha fatto le debite presentazioni.
Poco alla volta, ha aperto un ampio ventaglio di profumi fruttati, floreali e speziati con note evidenti di pesca gialla, albicocca, fiori d'acacia, ben accompagnati da fini sentori speziati di liquirizia dolce che mi hanno fatto ricordare le rotelle Haribo.
Sensazioni che ho ritrovato in bocca, amalgamate in un corpo elegante di ottima freschezza, morbidezza e sapidità, con un'acidità ancora vispa che fa presagire che la storia di questa annata sia destinata a durare ancora almeno un paio d'anni.
Buono con l'orata, immagino sia con i crostacei e con i formaggi caprini freschi che questo vino possa dare il meglio di sé. Spingendoci, magari tra un altro annetto, verso formaggi di pecora maggiormente stagionati e piccanti. Prezzo in enoteca: circa 15-18 euro.
Nicola Taffuri
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giovedì 20 novembre 2008
Nuova Zelanda, il trionfo del Sauvignon
Quando, nel 1985, venne premiato a Londra come il miglior Sauvignon Blanc del mondo, anche i più eurocentrici furono costretti ad ammettere che, anche in altri continenti, si possono fare grandissimi vini. Migliori persino, ed è questo il caso, degli straordinari Sauvignon francesi della Valle della Loira.
In Nuova Zelanda, specie nella contea di Marlborough nell'isola sud, nascono da tempo i migliori Sauvignon del pianeta. Tra questi quelli dell'azienda Cloudy Bay di Cap Mentelle, rivelazione in quell'ormai lontano 1985, continuano a essere una grandissima certezza per tutti gli appassionati di questa tipologia di vini bianchi tanto profumati che, a definirli semi-aromatici, gli si fa quasi un torto.
Il loro bouquet, infatti, presenta una tale esplosione di eleganti sensazioni erbacee, fruttate e agrumate che, quando questa trova un buon riscontro anche in bocca, eleva questi vini ai vertici dell'enologia mondiale.
E' il caso, come detto, del Sauvignon di Cloudy Bay, che si trova facilmente in enoteca e su internet a prezzi che variano da 20 a 30 euro. Oppure di quello dell'azienda Mount Nelson, altrettanto invitante al naso ma un po' meno generoso in bocca. Ad ogni modo anch'esso un grande vino che costa appena 15 euro. Oltretutto questo Sauvignon è bilingue, visto che nasce in Nuova Zelanda da padre italiano, il Marchese-enologo Lodovico Antinori. Da notare che, entrambe le bottiglie, hanno il tappo a vite, una chiusura che stenta ad affermarsi nel nostro Paese ma che altrove sta ormai soppiantando il sughero, nonostante alcuni studi sostengano che questo nuovo tappo possa rilasciare nel vino sostanze cancerogene.
Nicola Taffuri
In Nuova Zelanda, specie nella contea di Marlborough nell'isola sud, nascono da tempo i migliori Sauvignon del pianeta. Tra questi quelli dell'azienda Cloudy Bay di Cap Mentelle, rivelazione in quell'ormai lontano 1985, continuano a essere una grandissima certezza per tutti gli appassionati di questa tipologia di vini bianchi tanto profumati che, a definirli semi-aromatici, gli si fa quasi un torto.
Il loro bouquet, infatti, presenta una tale esplosione di eleganti sensazioni erbacee, fruttate e agrumate che, quando questa trova un buon riscontro anche in bocca, eleva questi vini ai vertici dell'enologia mondiale.
E' il caso, come detto, del Sauvignon di Cloudy Bay, che si trova facilmente in enoteca e su internet a prezzi che variano da 20 a 30 euro. Oppure di quello dell'azienda Mount Nelson, altrettanto invitante al naso ma un po' meno generoso in bocca. Ad ogni modo anch'esso un grande vino che costa appena 15 euro. Oltretutto questo Sauvignon è bilingue, visto che nasce in Nuova Zelanda da padre italiano, il Marchese-enologo Lodovico Antinori. Da notare che, entrambe le bottiglie, hanno il tappo a vite, una chiusura che stenta ad affermarsi nel nostro Paese ma che altrove sta ormai soppiantando il sughero, nonostante alcuni studi sostengano che questo nuovo tappo possa rilasciare nel vino sostanze cancerogene.
Nicola Taffuri
martedì 18 novembre 2008
Archiviata la figuraccia, Wine Spectator ci riprova con la "Top 100"
Piaccia o meno, l'annuale classifica dei cento migliori vini del mondo stilata dalla rivista americana "Wine Spectator" è da due decenni la principale artefice delle mode e delle tendenze del gusto enologico planetario.
Proprio l'enorme potere di "far alzare i calici" ha reso oggetto la sedicente Bibbia degli appassionati di vino di svariati tentativi di screditarla o comunque di ridimensionarla.
Il dardo più infuocato è andato clamorosamente a segno in agosto grazie al trappolone architettato dal giornalista inglese Robin Goldstein, scrittore ed esperto di vini, che si è visto premiare dall'autorevole rivista un ristorante inesistente ma con tanto di sito web e lista vini redatta dal diabolico reporter con le ETICHETTE BOCCIATE da Wine Spectator in questi anni.
A questa palese dimostrazione di assoluta mancanza di professionalità si aggiunga il fatto che il giornale si è incassato 250 euro di "Tassa di partecipazione" al concorso, modo assai gentile per definire una marchetta giornalistica in piena regola.
Ad ogni modo anche questa volta il Potere si è dimostrato più forte degli scandali e, evaporato il temporale estivo, ha varato la tanto attesa "Top 100".
Il Barolo Docg 2004 di Pio Cesare è l'unico grande vino italiano entrato nell'Olimpo dei primi dieci. Più ancora che il premio al ristorante inesistente, l'assenza di un Brunello, di un Amarone, di un Taurasi, piuttosto che di un Bolgheri o di un Supertuscan nelle primissime posizioni certifica su carta l'assoluta inaffidabilità delle graduatorie e delle patacche della Bibbia del vino. Che si conferma, anche per il 2008, al primo posto tra i falsi profeti.
Nicola Taffuri
1) Casa Lapostolle, Clos Apalta Colchagua Valley 2005
2) Château Rauzan-Ségla, Margaux 2005
3) Quinta do Crasto, Douro Reserva Old Vines 2005
4) Château Guiraud, Sauternes 2005
5) Domaine du Vieux Télégraphe, Châteauneuf-du-Pape La Crau 2005
6) Pio Cesare, Barolo 2004
7) Château Pontet-Canet, Pauillac 2005
8) Château de Beaucastel, Châteauneuf-du-Pape 2005
9) Mollydooker, Shiraz McLaren Vale Carnival of Love 2007
10) Seghesio, Zinfandel Sonoma County 2007
Proprio l'enorme potere di "far alzare i calici" ha reso oggetto la sedicente Bibbia degli appassionati di vino di svariati tentativi di screditarla o comunque di ridimensionarla.
Il dardo più infuocato è andato clamorosamente a segno in agosto grazie al trappolone architettato dal giornalista inglese Robin Goldstein, scrittore ed esperto di vini, che si è visto premiare dall'autorevole rivista un ristorante inesistente ma con tanto di sito web e lista vini redatta dal diabolico reporter con le ETICHETTE BOCCIATE da Wine Spectator in questi anni.
A questa palese dimostrazione di assoluta mancanza di professionalità si aggiunga il fatto che il giornale si è incassato 250 euro di "Tassa di partecipazione" al concorso, modo assai gentile per definire una marchetta giornalistica in piena regola.
Ad ogni modo anche questa volta il Potere si è dimostrato più forte degli scandali e, evaporato il temporale estivo, ha varato la tanto attesa "Top 100".
Il Barolo Docg 2004 di Pio Cesare è l'unico grande vino italiano entrato nell'Olimpo dei primi dieci. Più ancora che il premio al ristorante inesistente, l'assenza di un Brunello, di un Amarone, di un Taurasi, piuttosto che di un Bolgheri o di un Supertuscan nelle primissime posizioni certifica su carta l'assoluta inaffidabilità delle graduatorie e delle patacche della Bibbia del vino. Che si conferma, anche per il 2008, al primo posto tra i falsi profeti.
Nicola Taffuri
1) Casa Lapostolle, Clos Apalta Colchagua Valley 2005
2) Château Rauzan-Ségla, Margaux 2005
3) Quinta do Crasto, Douro Reserva Old Vines 2005
4) Château Guiraud, Sauternes 2005
5) Domaine du Vieux Télégraphe, Châteauneuf-du-Pape La Crau 2005
6) Pio Cesare, Barolo 2004
7) Château Pontet-Canet, Pauillac 2005
8) Château de Beaucastel, Châteauneuf-du-Pape 2005
9) Mollydooker, Shiraz McLaren Vale Carnival of Love 2007
10) Seghesio, Zinfandel Sonoma County 2007
sabato 15 novembre 2008
Confessioni di Sassicaia
Stapparne una bottiglia è sempre un'esperienza rara ed emozionante per qualsiasi appassionato di vino. Aprirne cinque annate diverse in una volta sola è decisamente un evento da appuntarsi nelle memorie di una vita.
Sto parlando del Sassicaia, il mitico rosso in stile bordolese della Tenuta San Guido di Bolgheri (Li), di proprietà dei Marchesi Incisa della Rocchetta. Protagonista, qualche giorno fa, di una eccezionale degustazione presso il ristorante San Gerolamo di Vercurago, alle porte di Lecco, organizzata da Anna e Paola Campidori, le giovani titolari di una nuova e curatissima "boutique del gusto" in quel di Oggiono (Lc), ricca di vini e prodotti tipici di ogni sorta, prezzo e provenienza.
Io purtroppo me la sono persa a causa dei soliti impegni inderogabili. Ma non mi sono dato per vinto e così ho chiesto la cortesia ad Anna, sommelier Ais come sua sorella Paola, di scrivermi due righe sulle emozioni provate quella sera. E lei, da vera appassionata di vino, ha accettato subito con entusiasmo.
STREGATA DAL SASSICAIA
"Può capitare che un vino ti lasci senza parole.
A me è successo lunedì scorso con il Sassicaia.
Mi sono trovata di fronte a quello che sapevo essere un grande vino, dal nome imponente ed evocativo, dall’etichetta elegante ed essenziale, vanto del patrimonio enologico italiano, uno dei pochi capace di confrontarsi con i grandi francesi.
Un vino che avevo già assaggiato in tempi passati, di cui avevo un piacevole ma sfumato ricordo.
Lunedì sera, al ristorante San Gerolamo di Vercurago, grazie alla collaborazione di Luca, proprietario e chef e, posso dirlo con soddisfazione, alle bottiglie che provenivano dal negozio mio e di mia sorella Paola, ho partecipato con amici e clienti ad una degustazione di cinque annate di Sassicaia, dal 1990 al 2001, passando attraverso il 1995, 1997 e il 1999.
La degustazione è iniziata con l’annata più recente, il 2001.
Mi sono immediatamente trovata di fronte ad un vino dagli ampi profumi di frutta matura e dal grande sapore. Un piacere in bocca. Già dall’annata più giovane ci siamo subito resi tutti conto di aver di fronte un grande vino e non solo un nome altisonante.
Ma era solo l’inizio. La parte interessante e scopo della serata era capire l’evoluzione del vino: il risultato del lavoro di Mario Incisa della Rocchetta e Giacomo Tachis nel tempo. Sperando di restare piacevolmente sorpresi, il che non era poi così scontato tenuto conto che l’ultima bottiglia avrebbe avuto 18 anni di vita (perché con il vino è di vita che si parla).
La degustazione è continuata con un 1999, che presentava un tannino meno verde, facendosi più morbido in bocca ma con i profumi un po’ trattenuti.
E’ con il 1997 che secondo me c’è stato il primo grande salto ed è siamo stati tutti avvolti in un turbinio di sensazioni che non dimenticheremo. Dal 1997 al 1995 sino al 1990, il vino accarezzava sempre più il palato come il velluto. I profumi, sempre eleganti, si evolvevano dalla frutta matura, a note speziate, a profumi secondari e terziari di un vino evoluto, sino alle ciliegie sotto spirito dell’ultima grandissima annata, il 1990. I sapori esplodevano in bocca in una crescita esponenziale ed indescrivibile.
Era il vino ormai a parlare e ci aveva tutti ipnotizzati in un susseguirsi di emozioni vere e proprie. Emozioni che non finivano mai. Assaggiando e riassaggiando il vino, saltando da un’annata all’altra, ci si rendeva conto che il vino, ormai aperto da ore, continuava a crescere, ad evolversi, a regalare nuovi profumi. Lo stesso 2001, il più giovane, si arricchiva di note di liquirizia prima non colte e lasciava intravedere anche ai palati meno esperti le sue immense potenzialità di maturazione.
Un grande vino. Un vero capolavoro. Un’esperienza indimenticabile coronata dall’ottimo risotto di Luca e dagli strepitosi Champagne con cui abbiamo chiuso la serata"
Anna Campidori - Campidori Selections
Sto parlando del Sassicaia, il mitico rosso in stile bordolese della Tenuta San Guido di Bolgheri (Li), di proprietà dei Marchesi Incisa della Rocchetta. Protagonista, qualche giorno fa, di una eccezionale degustazione presso il ristorante San Gerolamo di Vercurago, alle porte di Lecco, organizzata da Anna e Paola Campidori, le giovani titolari di una nuova e curatissima "boutique del gusto" in quel di Oggiono (Lc), ricca di vini e prodotti tipici di ogni sorta, prezzo e provenienza.
Io purtroppo me la sono persa a causa dei soliti impegni inderogabili. Ma non mi sono dato per vinto e così ho chiesto la cortesia ad Anna, sommelier Ais come sua sorella Paola, di scrivermi due righe sulle emozioni provate quella sera. E lei, da vera appassionata di vino, ha accettato subito con entusiasmo.
STREGATA DAL SASSICAIA
"Può capitare che un vino ti lasci senza parole.
A me è successo lunedì scorso con il Sassicaia.
Mi sono trovata di fronte a quello che sapevo essere un grande vino, dal nome imponente ed evocativo, dall’etichetta elegante ed essenziale, vanto del patrimonio enologico italiano, uno dei pochi capace di confrontarsi con i grandi francesi.
Un vino che avevo già assaggiato in tempi passati, di cui avevo un piacevole ma sfumato ricordo.
Lunedì sera, al ristorante San Gerolamo di Vercurago, grazie alla collaborazione di Luca, proprietario e chef e, posso dirlo con soddisfazione, alle bottiglie che provenivano dal negozio mio e di mia sorella Paola, ho partecipato con amici e clienti ad una degustazione di cinque annate di Sassicaia, dal 1990 al 2001, passando attraverso il 1995, 1997 e il 1999.
La degustazione è iniziata con l’annata più recente, il 2001.
Mi sono immediatamente trovata di fronte ad un vino dagli ampi profumi di frutta matura e dal grande sapore. Un piacere in bocca. Già dall’annata più giovane ci siamo subito resi tutti conto di aver di fronte un grande vino e non solo un nome altisonante.
Ma era solo l’inizio. La parte interessante e scopo della serata era capire l’evoluzione del vino: il risultato del lavoro di Mario Incisa della Rocchetta e Giacomo Tachis nel tempo. Sperando di restare piacevolmente sorpresi, il che non era poi così scontato tenuto conto che l’ultima bottiglia avrebbe avuto 18 anni di vita (perché con il vino è di vita che si parla).
La degustazione è continuata con un 1999, che presentava un tannino meno verde, facendosi più morbido in bocca ma con i profumi un po’ trattenuti.
E’ con il 1997 che secondo me c’è stato il primo grande salto ed è siamo stati tutti avvolti in un turbinio di sensazioni che non dimenticheremo. Dal 1997 al 1995 sino al 1990, il vino accarezzava sempre più il palato come il velluto. I profumi, sempre eleganti, si evolvevano dalla frutta matura, a note speziate, a profumi secondari e terziari di un vino evoluto, sino alle ciliegie sotto spirito dell’ultima grandissima annata, il 1990. I sapori esplodevano in bocca in una crescita esponenziale ed indescrivibile.
Era il vino ormai a parlare e ci aveva tutti ipnotizzati in un susseguirsi di emozioni vere e proprie. Emozioni che non finivano mai. Assaggiando e riassaggiando il vino, saltando da un’annata all’altra, ci si rendeva conto che il vino, ormai aperto da ore, continuava a crescere, ad evolversi, a regalare nuovi profumi. Lo stesso 2001, il più giovane, si arricchiva di note di liquirizia prima non colte e lasciava intravedere anche ai palati meno esperti le sue immense potenzialità di maturazione.
Un grande vino. Un vero capolavoro. Un’esperienza indimenticabile coronata dall’ottimo risotto di Luca e dagli strepitosi Champagne con cui abbiamo chiuso la serata"
Anna Campidori - Campidori Selections
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venerdì 14 novembre 2008
Sicilia in Bianco
La Sicilia è il luogo della nostra Penisola dove più che altrove vanno in scena straordinari connubi tra uve locali e internazionali, capaci di dare vita a vini, sia rossi sia bianchi, di eccezionale eleganza e complessità. Il merito è della peculiare posizione geografica e della conformazione morfologica della regione, che offre angoli altamente vocati per la produzione di vini di qualità.
Mentre i grandi rossi da uve syrah, cabernet sauvignon, nero d'avola stanno conquistando fior di consensi e allori anche sui banchi d'assaggio internazionali, i bianchi sono ancora un po' nell'ombra.
Un vero peccato, perché tra di essi è facile scoprire prodotti veramente affascinanti e con un ottimo rapporto qualità-prezzo.
Poco tempo fa mi è capitato di assaggiare, per esempio, l'"Alastro" 2007 dell'azienda Planeta, un Sicilia Igt Bianco fatto con l'autoctono grecanico (parente strettissimo della garganega del Veneto) e il cosmopolita chardonnay.
Colore giallo paglierino bello limpido e consistente, profumi intensi ed eleganti di pesca gialla, banana, agrumi, frutto della passione, vaniglia e nocciola. L'esplosione di frutta tropicale e agrumi ci accompagna anche al gusto, dove si apprezza una bella morbidezza ben bilanciata dalla viva acidità e da una spiccata mineralità.
Davvero un bel bianco corposo ma non muscoloso, gradevolissimo, di ottima beva e classe da vendere. Infatti in enoteca non costa pochissimo, circa 12 euro, ma sono senza dubbio soldi ben spesi.
Mentre i grandi rossi da uve syrah, cabernet sauvignon, nero d'avola stanno conquistando fior di consensi e allori anche sui banchi d'assaggio internazionali, i bianchi sono ancora un po' nell'ombra.
Un vero peccato, perché tra di essi è facile scoprire prodotti veramente affascinanti e con un ottimo rapporto qualità-prezzo.
Poco tempo fa mi è capitato di assaggiare, per esempio, l'"Alastro" 2007 dell'azienda Planeta, un Sicilia Igt Bianco fatto con l'autoctono grecanico (parente strettissimo della garganega del Veneto) e il cosmopolita chardonnay.
Colore giallo paglierino bello limpido e consistente, profumi intensi ed eleganti di pesca gialla, banana, agrumi, frutto della passione, vaniglia e nocciola. L'esplosione di frutta tropicale e agrumi ci accompagna anche al gusto, dove si apprezza una bella morbidezza ben bilanciata dalla viva acidità e da una spiccata mineralità.
Davvero un bel bianco corposo ma non muscoloso, gradevolissimo, di ottima beva e classe da vendere. Infatti in enoteca non costa pochissimo, circa 12 euro, ma sono senza dubbio soldi ben spesi.
mercoledì 12 novembre 2008
Tokaji, quanti puttonyos hai?
Niente da dire. Gli ungheresi sono stati più veloci e furbi di noi italiani e hanno provveduto per primi a registrare in sede europea il nome di "Tokaji" per il loro vino più tipico. Con buonapace dei viticoltori italiani che si sono ormai rassegnati a chiamare "tai" o "friulano" quel vitigno conosciuto fino a pochi anni fa come tocai e che da noi viene usato per fare esclusivamente un bianco secco.
E' dunque una mera questione di nomi, perché i due prodotti, quello ungherese e quello italiano, non hanno mai avuto nulla a che spartire l'uno con l'altro.
Il Tokaji ungherese viene fatto con tre uve differenti: furmint, hárslevelű e muscat. Può essere secco (Szàras), dolce (Edes) ma sono senza dubbio le versioni botritizzate (Aszù) quelle di maggior pregio.
Tanto da indurre persino lo Zar di Russia, nei secoli passati, a mandare truppe di cosacchi apposta in Ungheria per scortare il prezioso nettare sino a San Pietroburgo. In particolare lo Zar andava matto per una versione superconcentrata dell'"Essencia", il grado più stucchevole nella classificazione del Tokaji in base agli zuccheri contenuti. Ma tant'è.
Oggi come allora la dolcezza del Tokaji Aszù, fatto miscelando una parte di bianco secco con il mosto di uve appassite per via dell'attacco della botrytis cinerea, la cosiddetta "muffa nobile", si misura in puttonyos (da 2, il più amabile, fino a 8, la dolcissima Essencia).
Questi non sono altro che le tradizionali gerle contenenti ciascuna 25 kg di uva botritizzata. Più puttonyos di uva si aggiungono al vino secco, più il Tokaji Aszù sarà dolce e strutturato, al termine di un invecchiamento nelle botti che può andare dai 2 fino ai 10 anni e più.
Io ho avuto l'estremo piacere di assaggiare il Tokaji 6 Puttonyos 1998 50 cl. dell'azienda Baron Bornemisza, che troviamo anche da Peck al prezzo di 49 euro.
Colore dorato profondo e brillante, profumi molto intensi di rara complessità e assoluta eleganza. Si fa notare per prima la caramella al miele, seguita da squisite sensazioni di datteri, albicocche secche, marmellata di fichi, frutta candita, con una nota minerale di iodio. In bocca è dolce, caldo e morbido ma colpisce per la viva acidità che lo rende fresco e piacevole. E' l'esatto contrario di ciò che si definisce un vino stucchevole. Questo Tokaji non stanca mai - e perdonate la rima non voluta - per merito, oltre che della freschezza, del tenore alcolico di 12 gradi. Pochi, se pensiamo che, per esempio, un Passito di Pantelleria ne ha solitamente 15!
Come abbinamenti un consiglio. Bevetelo da solo, per apprezzare al meglio le mille sfumature di questo grandissimo vino dolce ungherese.
Nicola Taffuri
E' dunque una mera questione di nomi, perché i due prodotti, quello ungherese e quello italiano, non hanno mai avuto nulla a che spartire l'uno con l'altro.
Il Tokaji ungherese viene fatto con tre uve differenti: furmint, hárslevelű e muscat. Può essere secco (Szàras), dolce (Edes) ma sono senza dubbio le versioni botritizzate (Aszù) quelle di maggior pregio.
Tanto da indurre persino lo Zar di Russia, nei secoli passati, a mandare truppe di cosacchi apposta in Ungheria per scortare il prezioso nettare sino a San Pietroburgo. In particolare lo Zar andava matto per una versione superconcentrata dell'"Essencia", il grado più stucchevole nella classificazione del Tokaji in base agli zuccheri contenuti. Ma tant'è.
Oggi come allora la dolcezza del Tokaji Aszù, fatto miscelando una parte di bianco secco con il mosto di uve appassite per via dell'attacco della botrytis cinerea, la cosiddetta "muffa nobile", si misura in puttonyos (da 2, il più amabile, fino a 8, la dolcissima Essencia).
Questi non sono altro che le tradizionali gerle contenenti ciascuna 25 kg di uva botritizzata. Più puttonyos di uva si aggiungono al vino secco, più il Tokaji Aszù sarà dolce e strutturato, al termine di un invecchiamento nelle botti che può andare dai 2 fino ai 10 anni e più.
Io ho avuto l'estremo piacere di assaggiare il Tokaji 6 Puttonyos 1998 50 cl. dell'azienda Baron Bornemisza, che troviamo anche da Peck al prezzo di 49 euro.
Colore dorato profondo e brillante, profumi molto intensi di rara complessità e assoluta eleganza. Si fa notare per prima la caramella al miele, seguita da squisite sensazioni di datteri, albicocche secche, marmellata di fichi, frutta candita, con una nota minerale di iodio. In bocca è dolce, caldo e morbido ma colpisce per la viva acidità che lo rende fresco e piacevole. E' l'esatto contrario di ciò che si definisce un vino stucchevole. Questo Tokaji non stanca mai - e perdonate la rima non voluta - per merito, oltre che della freschezza, del tenore alcolico di 12 gradi. Pochi, se pensiamo che, per esempio, un Passito di Pantelleria ne ha solitamente 15!
Come abbinamenti un consiglio. Bevetelo da solo, per apprezzare al meglio le mille sfumature di questo grandissimo vino dolce ungherese.
Nicola Taffuri
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martedì 11 novembre 2008
Bollicine del Veneto in rosa
lunedì 10 novembre 2008
Quando non è il caso di fare i pignoli
Come anticipato nel post precedente, ieri, domenica, sono andato a fare visita a uno dei rifugi intorno al Monte Legnone che aderiscono all'iniziativa "Sapori d'autunno", valida fino al 30 novembre. Ecco il breve racconto della giornata.
Le due ore di passeggiata nell'aria frizzante e pregna degli aromi dei larici , degli abeti e dei pini silvestri che pennellano di giallo e di verde le pendici del gigante delle Prealpi lecchesi mi risvegliano un discreto appetito che va soddisfatto con uno dei gustosi menu completi offerti dal rifugio.
Una rapida occhiata alla lista e subito il mio amore per la cacciagione prende il sopravvento sugli altri pur invitanti piatti a base di manzo o di maiale. Tortelli alle castagne ripieni di ragù di selvaggina, stracotto di cervo con polenta taragna e dolce della casa. "E da bere?"
Il menu da 30 € comprende una caraffa da un litro di Rosso Piceno, fermo o vivace.
Trattenuta a fatica l'irascibilità dovuta ai ricordi dei feroci bruciori di stomaco patiti in gioventù per colpa dei vinelli sfusi da sagra o da banchetto, chiedo gentilmente:
"Posso barattare il litrozzo di sfuso con una bottiglia? Le pago la differenza".
Gentilissima, la titolare mi porta la lista vini dalla quale pesco senza indugi il Valtellina Superiore Docg Sassella di Sandro Fay, una garanzia assoluta di qualità.
Dopo 5 minuti la cameriera mi lascia sul tavolo una bottiglia di Sassella 2005 di casa Rainoldi, altro rinomato produttore dei vini fatti con l'uva chiavennasca, il nebbiolo della Valtellina. "Fa niente se è aperta?"
Passi pure il fatto che mi porti Rainoldi per Fay. Ma la bottiglia, acqua o vino che sia, va aperta assolutamente al tavolo.
Che fare in questi casi?
Come in ogni situazione, meglio riflettere e valutare la situazione.
E' domenica. Non ci troviamo al tavolo del ristorante di Peck bensì in un rifugio a 1463 metri invaso da cittadini giunti fin lassù con i loro macchinoni con il preciso intento di mangiare e bere a volontà, non importa che cosa ma quanto. Le cameriere sono soltanto due e stanno correndo come matte da una sala all'altra. L'atmosfera è gioviale, informale e rilassata.
Vale la pena rompere le scatole per il vino? Certo, nel caso sappia di tappo.
Meglio invece soprassedere se l'oste al bancone, per velocizzare le operazioni di servizio, ha provveduto a stappare lui stesso la bottiglia prima di farla portare al tavolo dalle ragazze. Anche se il vino in questione non è un Sangiovese da 2 euro la damigiana bensì un grande Valtellina Superiore Docg del 2005, l'annata più giovane attualmente in commercio.
Colore rosso rubino con riflessi aranciati, profumi di ribes, amarene, viole e ciclamini con quella fine nota di vaniglia, piacevole eredità del processo di affinamento nel legno. Molto fresco in bocca, tannino ben addomesticato perfetto per pulire il palato dal burro dei tortelli e dalla succulenta salsa strutturata del cervo. Il corpo fruttato contrasta piacevolmente l'amarognolo del grano saraceno della polenta taragna. Davvero un gran bel vino. Prezzo sulla carta: 14 €.
Nicola Taffuri
Le due ore di passeggiata nell'aria frizzante e pregna degli aromi dei larici , degli abeti e dei pini silvestri che pennellano di giallo e di verde le pendici del gigante delle Prealpi lecchesi mi risvegliano un discreto appetito che va soddisfatto con uno dei gustosi menu completi offerti dal rifugio.
Una rapida occhiata alla lista e subito il mio amore per la cacciagione prende il sopravvento sugli altri pur invitanti piatti a base di manzo o di maiale. Tortelli alle castagne ripieni di ragù di selvaggina, stracotto di cervo con polenta taragna e dolce della casa. "E da bere?"
Il menu da 30 € comprende una caraffa da un litro di Rosso Piceno, fermo o vivace.
Trattenuta a fatica l'irascibilità dovuta ai ricordi dei feroci bruciori di stomaco patiti in gioventù per colpa dei vinelli sfusi da sagra o da banchetto, chiedo gentilmente:
"Posso barattare il litrozzo di sfuso con una bottiglia? Le pago la differenza".
Gentilissima, la titolare mi porta la lista vini dalla quale pesco senza indugi il Valtellina Superiore Docg Sassella di Sandro Fay, una garanzia assoluta di qualità.
Dopo 5 minuti la cameriera mi lascia sul tavolo una bottiglia di Sassella 2005 di casa Rainoldi, altro rinomato produttore dei vini fatti con l'uva chiavennasca, il nebbiolo della Valtellina. "Fa niente se è aperta?"
Passi pure il fatto che mi porti Rainoldi per Fay. Ma la bottiglia, acqua o vino che sia, va aperta assolutamente al tavolo.
Che fare in questi casi?
Come in ogni situazione, meglio riflettere e valutare la situazione.
E' domenica. Non ci troviamo al tavolo del ristorante di Peck bensì in un rifugio a 1463 metri invaso da cittadini giunti fin lassù con i loro macchinoni con il preciso intento di mangiare e bere a volontà, non importa che cosa ma quanto. Le cameriere sono soltanto due e stanno correndo come matte da una sala all'altra. L'atmosfera è gioviale, informale e rilassata.
Vale la pena rompere le scatole per il vino? Certo, nel caso sappia di tappo.
Meglio invece soprassedere se l'oste al bancone, per velocizzare le operazioni di servizio, ha provveduto a stappare lui stesso la bottiglia prima di farla portare al tavolo dalle ragazze. Anche se il vino in questione non è un Sangiovese da 2 euro la damigiana bensì un grande Valtellina Superiore Docg del 2005, l'annata più giovane attualmente in commercio.
Colore rosso rubino con riflessi aranciati, profumi di ribes, amarene, viole e ciclamini con quella fine nota di vaniglia, piacevole eredità del processo di affinamento nel legno. Molto fresco in bocca, tannino ben addomesticato perfetto per pulire il palato dal burro dei tortelli e dalla succulenta salsa strutturata del cervo. Il corpo fruttato contrasta piacevolmente l'amarognolo del grano saraceno della polenta taragna. Davvero un gran bel vino. Prezzo sulla carta: 14 €.
Nicola Taffuri
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sabato 8 novembre 2008
Sapori d'autunno in Valvarrone
A fine agosto scrissi due righe sulla Valvarrone, rigogliosa valle che sale sopra le coltellerie di Premana (Lecco) fino a toccare i primi contrafforti del Pizzo dei Tre Signori, e sul giovane casaro che lì produce un formaggio detto volgarmente Grasso d'Alpe ma che non ha nulla a che invidiare con il ben più rinomato Bitto Dop dell'adiacente Val Gerola.
Domani approfitterò delle benevole previsioni del tempo per tornare a fare due passi da quelle parti, approfittando della succulenta iniziativa dei rifugi della zona che, fino al 30 di novembre, propongono una serie di menu autunnali a prezzi interessanti.
Tutti i rifugi coinvolti sono raggiungibili a piedi o in auto: si va da quota 578 m. di Vestreno a quota 1450 m. del rifugio Roccoli Lorla, punto di partenza per l'ascesa ai 2.608 metri del Monte Legnone. Inutile dire che i protagonisti assoluti saranno i prodotti di stagione abilmente trattati come vuole la cucina locale, a base di polenta, formaggio, selvaggina, funghi e castagne. Da godere, nel rispetto della territorialità, con un corpulento Valtellina Superiore Docg.
Nicola Taffuri
Domani approfitterò delle benevole previsioni del tempo per tornare a fare due passi da quelle parti, approfittando della succulenta iniziativa dei rifugi della zona che, fino al 30 di novembre, propongono una serie di menu autunnali a prezzi interessanti.
Tutti i rifugi coinvolti sono raggiungibili a piedi o in auto: si va da quota 578 m. di Vestreno a quota 1450 m. del rifugio Roccoli Lorla, punto di partenza per l'ascesa ai 2.608 metri del Monte Legnone. Inutile dire che i protagonisti assoluti saranno i prodotti di stagione abilmente trattati come vuole la cucina locale, a base di polenta, formaggio, selvaggina, funghi e castagne. Da godere, nel rispetto della territorialità, con un corpulento Valtellina Superiore Docg.
Nicola Taffuri
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venerdì 7 novembre 2008
Vini di Lombardia a Milano
Lunedì prossimo, dalle 15 alle 19 presso il Circolo della Stampa in c.so Venezia 16 a Milano, ci sarà la presentazione delle nuova Guida Ais "Viniplus 2009" dedicata esclusivamente ai vini della Lombardia.
La grande attrattiva di questo evento mediatico, più che dalla curiosità di scoprire quali etichette si sono meritate quest'anno le ambite quattro "rose camune", è data dal grande banco d'assaggio dove saranno presenti tutte le etichette selezionate.
Io, per esempio, ho già a tiro vini come lo Sforzato di "Le Strie" o il Valtellina Superiore Valgella "Carteria" della famiglia Fay, piuttosto che il Lugana "Pergola" delle Cantine della Valtenesi, uno dei miei bianchi preferiti.
Ma so già che dovrò rivedere i miei piani, perché non sai mai dove ti portano degustazioni come queste.
Una cosa so per certo. Che, per non vedermi stracciata la mia tessera Ais, il primo calice che leverò al cielo non sarà un ballon con un muscoloso rosso della Valtellina bensì una fresca flute di Franciacorta.
L'ingresso è solo su invito ed è gratuito per i soci Ais.
La grande attrattiva di questo evento mediatico, più che dalla curiosità di scoprire quali etichette si sono meritate quest'anno le ambite quattro "rose camune", è data dal grande banco d'assaggio dove saranno presenti tutte le etichette selezionate.
Io, per esempio, ho già a tiro vini come lo Sforzato di "Le Strie" o il Valtellina Superiore Valgella "Carteria" della famiglia Fay, piuttosto che il Lugana "Pergola" delle Cantine della Valtenesi, uno dei miei bianchi preferiti.
Ma so già che dovrò rivedere i miei piani, perché non sai mai dove ti portano degustazioni come queste.
Una cosa so per certo. Che, per non vedermi stracciata la mia tessera Ais, il primo calice che leverò al cielo non sarà un ballon con un muscoloso rosso della Valtellina bensì una fresca flute di Franciacorta.
L'ingresso è solo su invito ed è gratuito per i soci Ais.
mercoledì 5 novembre 2008
Il segreto del Novello
Dalla mezzanotte di oggi sarà in vendita il vino Novello della vendemmia appena terminata, nel rispetto della consueta data del 6 novembre, fissata dal Ministero delle Politiche Agricole e Forestali (MiPAF).
Tutti ne parlano ma in pochi sanno quale è la caratteristica del "vino nuovo". Alcuni dubitano addirittura che si tratti di vino vero e proprio.
Partiamo innanzitutto dalla seconda questione. Il Novello è un vino a tutti gli effetti che si distingue dagli altri per il particolare procedimento con cui viene fatto.
Il segreto sta nella "macerazione carbonica", un metodo di vinificazione rapida adottato per la prima volta intorno agli anni '40 del secolo scorso nella regione francese di Beaujolais, dove tuttora si produce il Novello per antonomasia, ovvero il Beaujolais Nouveau.
Una tecnica particolare
I grappoli interi, completi di raspi, vengono messi in vasche sature di anidride carbonica, dove riposano per un periodo compreso tra i 5 e i 20 giorni a una temperatura di circa 30°C. L'ambiente privo di ossigeno e l'impiego di anidride solforosa impediscono l'ossidazione dell'uva e costringono l'acino a una sorta di automacerazione senza rottura della buccia, dove sono concentrate in massima parte le sostanze colorate e aromatiche. Queste migrano verso la polpa dell'acino riempiendolo degli aromi fruttati tipici dell'uva rossa fresca e che ricordano la fragola e il lampone.
Alla fine della macerazione carbonica gli zuccheri residui sono "dati in pasto" a lieviti selezionati che completano la fermentazione alcolica.
Dopo appena un mese dalla vendemmia abbiamo così un vino rosso secco pronto da bere. Mica male, se pensiamo che un normale bianco fatto con la vinificazione tradizionale difficilmente è pronto prima del Vinitaly, che cade ai primi di aprile. Per non parlare dei rossi! Certo, la fretta ha uno scotto che va pagato in termini di minore struttura, corpo e complessità, perché per fare un grande vino ci vuole più tempo.
Il Novello va apprezzato per quello che è: un vino leggero, poco colorato e quasi per nulla tannico, molto fresco e dai marcati aromi di frutti di bosco e violette. Un vino da bere assolutamente, dicono, entro l'anno. Per apprezzarlo meglio, il mio consiglio è di stappare l'ultima bottiglia prima della fine dell'inverno.
Nicola Taffuri
Tutti ne parlano ma in pochi sanno quale è la caratteristica del "vino nuovo". Alcuni dubitano addirittura che si tratti di vino vero e proprio.
Partiamo innanzitutto dalla seconda questione. Il Novello è un vino a tutti gli effetti che si distingue dagli altri per il particolare procedimento con cui viene fatto.
Il segreto sta nella "macerazione carbonica", un metodo di vinificazione rapida adottato per la prima volta intorno agli anni '40 del secolo scorso nella regione francese di Beaujolais, dove tuttora si produce il Novello per antonomasia, ovvero il Beaujolais Nouveau.
Una tecnica particolare
I grappoli interi, completi di raspi, vengono messi in vasche sature di anidride carbonica, dove riposano per un periodo compreso tra i 5 e i 20 giorni a una temperatura di circa 30°C. L'ambiente privo di ossigeno e l'impiego di anidride solforosa impediscono l'ossidazione dell'uva e costringono l'acino a una sorta di automacerazione senza rottura della buccia, dove sono concentrate in massima parte le sostanze colorate e aromatiche. Queste migrano verso la polpa dell'acino riempiendolo degli aromi fruttati tipici dell'uva rossa fresca e che ricordano la fragola e il lampone.
Alla fine della macerazione carbonica gli zuccheri residui sono "dati in pasto" a lieviti selezionati che completano la fermentazione alcolica.
Dopo appena un mese dalla vendemmia abbiamo così un vino rosso secco pronto da bere. Mica male, se pensiamo che un normale bianco fatto con la vinificazione tradizionale difficilmente è pronto prima del Vinitaly, che cade ai primi di aprile. Per non parlare dei rossi! Certo, la fretta ha uno scotto che va pagato in termini di minore struttura, corpo e complessità, perché per fare un grande vino ci vuole più tempo.
Il Novello va apprezzato per quello che è: un vino leggero, poco colorato e quasi per nulla tannico, molto fresco e dai marcati aromi di frutti di bosco e violette. Un vino da bere assolutamente, dicono, entro l'anno. Per apprezzarlo meglio, il mio consiglio è di stappare l'ultima bottiglia prima della fine dell'inverno.
Nicola Taffuri
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martedì 4 novembre 2008
Quel "leggero" sentore animale
Alcuni noti vitigni a bacca rossa trasmettono al vino una componente aromatica che in gergo tecnico i sommeliers definiscono "animale" e che il più delle volte ricorda il cuoio, il pellame.
Ora, siccome il mondo animale è piuttosto vario e va dal cane al cavallo fino alla giraffa e al rinoceronte, cerchiamo di capire meglio cosa si intende per "sentore animale". Proprio ieri mi è capitato di assaggiare un Montepulciano d'Abruzzo che, a questo proposito, potremmo definire didattico, esemplare.
La nota selvatica è infatti una caratteristica del montepulciano, ritenuto da molti la più grande uva rossa italiana alla pari di nebbiolo e aglianico. L'importante è che questa tipicità non vada però a sovrastare gli altri deliziosi aromi fruttati e speziati del vino.
Il vino in questione, del quale mi limiterò a dire l'annata, la 2005, e il prezzo di 22 euro in enoteca, presentava invece una tale collezione di animali da fare invidia al biblico Noé.
A serrare gli occhi si ritornava bambini, quando ci portavano allo zoo tra cacche di cavallo e sterco di ippopotamo. La cosa era talmente evidente che il mio compagno di degustazione mi ha sussurrato in un orecchio "mi ricorda l'odore di Leo quando gli faccio il bagno". Inutile precisare che Leo non è il suo bimbo bensì un affettuoso pastore maremmano che trascorre le giornate a scorrazzare dentro e fuori dalle stalle del maneggio del padrone.
Il titolare del ristorante, invece, pareva non avere notato questa fisicità e seguitava a decantare i profumi fruttati di questo grande vino rosso abruzzese.
Meno male che, con estremo garbo, un'amica ha avuto il coraggio di fargli notare che c'era anche una leggerissima nota animale non molto elegante.
Appunto che è stato prontamente liquidato con un "Il Montepulciano deve essere così". Falso.
Il Montepulciano d'Abruzzo Doc, specie nella sua versione Colline Teramane Docg, può raggiungere davvero i vertici dell'eccellenza enologica mondiale, senza per questo rinunciare ad alcune delle sue tipicità come quella caratteristica nota animale. Provare, per credere, l'Inferi o il Dante dell'azienda Marramiero, il Villa Gemma e il Marina Cvetic del compianto Gianni Masciarelli, per non parlare del Montepulciano di Valentini.
Nicola Taffuri
Ora, siccome il mondo animale è piuttosto vario e va dal cane al cavallo fino alla giraffa e al rinoceronte, cerchiamo di capire meglio cosa si intende per "sentore animale". Proprio ieri mi è capitato di assaggiare un Montepulciano d'Abruzzo che, a questo proposito, potremmo definire didattico, esemplare.
La nota selvatica è infatti una caratteristica del montepulciano, ritenuto da molti la più grande uva rossa italiana alla pari di nebbiolo e aglianico. L'importante è che questa tipicità non vada però a sovrastare gli altri deliziosi aromi fruttati e speziati del vino.
Il vino in questione, del quale mi limiterò a dire l'annata, la 2005, e il prezzo di 22 euro in enoteca, presentava invece una tale collezione di animali da fare invidia al biblico Noé.
A serrare gli occhi si ritornava bambini, quando ci portavano allo zoo tra cacche di cavallo e sterco di ippopotamo. La cosa era talmente evidente che il mio compagno di degustazione mi ha sussurrato in un orecchio "mi ricorda l'odore di Leo quando gli faccio il bagno". Inutile precisare che Leo non è il suo bimbo bensì un affettuoso pastore maremmano che trascorre le giornate a scorrazzare dentro e fuori dalle stalle del maneggio del padrone.
Il titolare del ristorante, invece, pareva non avere notato questa fisicità e seguitava a decantare i profumi fruttati di questo grande vino rosso abruzzese.
Meno male che, con estremo garbo, un'amica ha avuto il coraggio di fargli notare che c'era anche una leggerissima nota animale non molto elegante.
Appunto che è stato prontamente liquidato con un "Il Montepulciano deve essere così". Falso.
Il Montepulciano d'Abruzzo Doc, specie nella sua versione Colline Teramane Docg, può raggiungere davvero i vertici dell'eccellenza enologica mondiale, senza per questo rinunciare ad alcune delle sue tipicità come quella caratteristica nota animale. Provare, per credere, l'Inferi o il Dante dell'azienda Marramiero, il Villa Gemma e il Marina Cvetic del compianto Gianni Masciarelli, per non parlare del Montepulciano di Valentini.
Nicola Taffuri
lunedì 3 novembre 2008
Tutto pronto per il Novello 2008
Novello ai blocchi di partenza. Dalla mezzanotte e un minuto di mercoledì 5 novembre sarà possibile cominciare a stappare le 17 milioni di bottiglie di "vino nuovo" prodotte in Italia con la vendemmia 2008, quella che si è appena conclusa.
Questa ricorrenza che in Francia chiamano "déblocage" darà il via alla mescita e alla vendita del Novello in tutta la Penisola, con ben due settimane di anticipo rispetto a quanto avviene Oltralpe, dove il vino nuovo di Beaujolais entra in commercio ogni anno a partire dal 3° giovedì di novembre, che quest'anno cade il giorno 20.
A differenza di quanto avviene in Francia, dove il Novello si fa nella zona di Beaujolais, a est del Massiccio Centrale, con le uve del vitigno gamay, nel nostro Paese si produce ovunque, usando peraltro le uve più disparate, dalle internazionali merlot, syrah, cabernet a quelle autoctone. E così abbiamo un Novello da uve barbera in Lombardia, ciliegiolo e sangiovese in Toscana, teroldego in Trentino, aglianico e piedirosso in Campania, nero d'Avola in Sicilia e via dicendo.
Veneto e Toscana sono le due regioni che ne producono di più, mentre tra i più noti produttori troviamo Cavit, Banfi, Antinori, Sella & Mosca e Ruffino.
Il vino Novello costa in media tra i 3 e gli 8 euro a bottiglia e deve essere consumato entro la fine dell'inverno, affinché mantenga inalterate le proprie caratteristiche. Ideale con le castagne e i salumi, le verdure in pinzimonio e i formaggi piccanti a pasta molle, possiamo anche andare oltre e provarlo con le zuppe un po' piccanti, i pesci arrosto e al cartoccio, il baccalà in umido e fritto, le lumache e l'anguilla. Il segreto è riuscire a sfruttare i suoi aromi di frutta fresca e la sua buona acidità per dare valore alle nostre pietanze.
Una raccomandazione...
Per quanto buono possa essere, un vino Novello avrà sempre un gusto più leggero e meno impegnativo di qualsiasi altro vino.
Di conseguenza, se abbiamo intenzione di portare in tavola altri vini, siano essi bianchi o rossi, serviamo il Novello per primo se non vogliamo che dal confronto ne esca con le ossa rotte!
Curiosità: gamay d'Italia
Il gamay è un'uva a bacca rossa che in Francia è usata per fare il Beaujolais Nouveau. Tuttavia la ritroviamo anche in alcune zone dell'Italia centrale, dove dà origine a vini rossi di maggiore struttura e importanza. Si è adattato alla grande soprattutto al clima mite del Trasimeno, dove viene vinificato anche in purezza dando vini che si sposano alla meraviglia con la cucina locale a base di pesce di lago.
Nicola Taffuri
Questa ricorrenza che in Francia chiamano "déblocage" darà il via alla mescita e alla vendita del Novello in tutta la Penisola, con ben due settimane di anticipo rispetto a quanto avviene Oltralpe, dove il vino nuovo di Beaujolais entra in commercio ogni anno a partire dal 3° giovedì di novembre, che quest'anno cade il giorno 20.
A differenza di quanto avviene in Francia, dove il Novello si fa nella zona di Beaujolais, a est del Massiccio Centrale, con le uve del vitigno gamay, nel nostro Paese si produce ovunque, usando peraltro le uve più disparate, dalle internazionali merlot, syrah, cabernet a quelle autoctone. E così abbiamo un Novello da uve barbera in Lombardia, ciliegiolo e sangiovese in Toscana, teroldego in Trentino, aglianico e piedirosso in Campania, nero d'Avola in Sicilia e via dicendo.
Veneto e Toscana sono le due regioni che ne producono di più, mentre tra i più noti produttori troviamo Cavit, Banfi, Antinori, Sella & Mosca e Ruffino.
Il vino Novello costa in media tra i 3 e gli 8 euro a bottiglia e deve essere consumato entro la fine dell'inverno, affinché mantenga inalterate le proprie caratteristiche. Ideale con le castagne e i salumi, le verdure in pinzimonio e i formaggi piccanti a pasta molle, possiamo anche andare oltre e provarlo con le zuppe un po' piccanti, i pesci arrosto e al cartoccio, il baccalà in umido e fritto, le lumache e l'anguilla. Il segreto è riuscire a sfruttare i suoi aromi di frutta fresca e la sua buona acidità per dare valore alle nostre pietanze.
Una raccomandazione...
Per quanto buono possa essere, un vino Novello avrà sempre un gusto più leggero e meno impegnativo di qualsiasi altro vino.
Di conseguenza, se abbiamo intenzione di portare in tavola altri vini, siano essi bianchi o rossi, serviamo il Novello per primo se non vogliamo che dal confronto ne esca con le ossa rotte!
Curiosità: gamay d'Italia
Il gamay è un'uva a bacca rossa che in Francia è usata per fare il Beaujolais Nouveau. Tuttavia la ritroviamo anche in alcune zone dell'Italia centrale, dove dà origine a vini rossi di maggiore struttura e importanza. Si è adattato alla grande soprattutto al clima mite del Trasimeno, dove viene vinificato anche in purezza dando vini che si sposano alla meraviglia con la cucina locale a base di pesce di lago.
Nicola Taffuri
venerdì 31 ottobre 2008
Gli incredibili profumi del Greco di Bianco
Nel delizioso mondo dei vini dolci il Greco di Bianco Doc non è secondo a nessuno. Lo producono un pugno di aziende calabresi nel territorio dei comuni di Bianco e Casignana, in provincia di Reggio Calabria, all'incirca là dove batte la punta dello stivale.
Per fare questo vino si usano le uve di greco bianco, un vitigno autoctono che fu uno dei primi ad essere portato in Italia dai coloni Greci che proprio su queste coste stabilirono i loro primi approdi, intorno al VII sec. a.C.
La sua caratteristica è che, mentre in altre zone della regione cresce fitto e compatto, in questa terra calda e arida per buona parte dell'anno dà origine a grappoli "spargoli", ovvero con i chicchi radi e ben distanziati gli uni dagli altri.
Si tratta di una sorta di auto-selezione che la pianta fa, decidendo di destinare le sue scarse risorse per la produzione di pochi acini.
A metà settembre è tempo di vendemmia, le uve vengono raccolte e messe ad appassire al sole su dei graticci costantemente asciugati dalle brezze del Mediterraneo.
Dopo una decina di giorni vengono portate in cantina e spremute, e il vino comincia il suo lento "processo di educazione", tra botticelle di legno e bottiglia, che durerà per circa 14 mesi.
LA DEGUSTAZIONE
Prendiamo, per esempio, il Greco di Bianco Doc 2003 dell'azienda Vintripodi. 14,5% di alcol per un prezzo medio di 35 euro in enoteca.
Dire che è brillante non rende l'idea, tanto questo vino luccica delle piccole stelle d'oro antico che si accendono nel cuore del suo caratteristico colore ambrato.
I profumi sono assolutamente stupefacenti, magnificamente ridondanti e di inaudita ricchezza e finezza. Alla mente scorrono le immagini delle albicocche secche, della mela cotogna, della marmellata di agrumi, dell'arancia candita. Ma non è finita qui. Salgono altri aromi di torrone, zenzero, cannella, nutella. Per finire con la salvia e il miele di castagno. Ma sarà davvero finita qui?
Vi assicuro, non sto delirando.
Tanta complessità ritorna in bocca ma sempre per via retroolfattiva. Al gusto è dominante la sensazione di albicocca secca inserita in una struttura di assoluta morbidezza e di dolcezza mai stucchevole, per via di una bella acidità che rende il vino tanto fresco da poterlo definire, più che dolce a tutti gli effetti, amabile.
Terminata la degustazione, il suo sapore delizioso ha accompagnato me e la mia compagna di libagioni fin dal fornaio dove ci siamo trangugiati un cornetto caldo con la marmellata di mele e un altro con la pasta di mandorle. Ché il sol pensiero mi fa venire ancora l'acquolina in bocca.
Nicola Taffuri
Per fare questo vino si usano le uve di greco bianco, un vitigno autoctono che fu uno dei primi ad essere portato in Italia dai coloni Greci che proprio su queste coste stabilirono i loro primi approdi, intorno al VII sec. a.C.
La sua caratteristica è che, mentre in altre zone della regione cresce fitto e compatto, in questa terra calda e arida per buona parte dell'anno dà origine a grappoli "spargoli", ovvero con i chicchi radi e ben distanziati gli uni dagli altri.
Si tratta di una sorta di auto-selezione che la pianta fa, decidendo di destinare le sue scarse risorse per la produzione di pochi acini.
A metà settembre è tempo di vendemmia, le uve vengono raccolte e messe ad appassire al sole su dei graticci costantemente asciugati dalle brezze del Mediterraneo.
Dopo una decina di giorni vengono portate in cantina e spremute, e il vino comincia il suo lento "processo di educazione", tra botticelle di legno e bottiglia, che durerà per circa 14 mesi.
LA DEGUSTAZIONE
Prendiamo, per esempio, il Greco di Bianco Doc 2003 dell'azienda Vintripodi. 14,5% di alcol per un prezzo medio di 35 euro in enoteca.
Dire che è brillante non rende l'idea, tanto questo vino luccica delle piccole stelle d'oro antico che si accendono nel cuore del suo caratteristico colore ambrato.
I profumi sono assolutamente stupefacenti, magnificamente ridondanti e di inaudita ricchezza e finezza. Alla mente scorrono le immagini delle albicocche secche, della mela cotogna, della marmellata di agrumi, dell'arancia candita. Ma non è finita qui. Salgono altri aromi di torrone, zenzero, cannella, nutella. Per finire con la salvia e il miele di castagno. Ma sarà davvero finita qui?
Vi assicuro, non sto delirando.
Tanta complessità ritorna in bocca ma sempre per via retroolfattiva. Al gusto è dominante la sensazione di albicocca secca inserita in una struttura di assoluta morbidezza e di dolcezza mai stucchevole, per via di una bella acidità che rende il vino tanto fresco da poterlo definire, più che dolce a tutti gli effetti, amabile.
Terminata la degustazione, il suo sapore delizioso ha accompagnato me e la mia compagna di libagioni fin dal fornaio dove ci siamo trangugiati un cornetto caldo con la marmellata di mele e un altro con la pasta di mandorle. Ché il sol pensiero mi fa venire ancora l'acquolina in bocca.
Nicola Taffuri
giovedì 30 ottobre 2008
Non facciamoci "infinocchiare"
Siamo talmente abituati ad usarli che non ci chiediamo nemmeno da dove hanno origine. Eppure, se ci pensiamo bene, tanti termini che danno colore al nostro linguaggio quotidiano sono veramente curiosi. Molti derivano da aneddoti e storielle risalenti ai secoli passati. Visto che qui parliamo di vino prendiamo, per esempio, la parola "infinocchiare".
Pare che essa abbia origini tardo-medioevali. I cittadini romani più facoltosi andavano spesso a fare il pieno di prodotti agroalimentari sui colli attorno alla città eterna. Si trattava, né più né meno, di quelle "gite fuori porta" di cui i telegiornali pasquali e ferragostani si riempiono la bocca ai giorni nostri. Solo che, all'epoca, solo i ricchi potevano concedersi queste scampagnate. E, come accade oggi, spesso si prendevano delle vere e proprie "sole", per dirla in romanesco, dal contadino di turno.
Se oggi il Frascati, specie nella sua versione Superiore, decisamente più strutturata e importante di quella "base", è uno dei vini bianchi più apprezzati d'Italia, nel Medioevo doveva essere qualcosa di poco più che bevibile, per i canoni attuali.
E così gli osti e i contadini dei Castelli Romani, prima di servire il loro vino poverello e squilibrato ai nobili di città, usavano porger loro un assaggio di finocchio selvatico. Questo aveva un duplice effetto: anestetizzava leggermente le papille gustative e lasciava in bocca un'aromaticità piacevole che perdurava anche all'assaggio del vino. Che appariva così meno difettoso e più saporito.
Vallo a spiegare poi, al ricco cittadino, come mai una volta tornato nel suo palazzo con il suo carico di vino dei Castelli, non provasse più le stesse piacevoli sensazioni gusto-olfattive avute qualche giorno prima.
Facile pensare che, come diciamo anche oggi, attribuissero la colpa all'"aria diversa" e al fattore emozionale suscitato dal dolce paesaggio agreste che rende tutto più buono. Invece erano stati "infinocchiati".
Tornando ai giorni nostri, se ci pensiamo bene, al bancone del bar, durante l'"happy hour", troviamo spesso vaschette con sedani e pezzetti di finocchio...
Quando ci capita, il nostro calice di bianco, proviamolo prima a bocca pulita, e poi sorseggiamolo dopo aver sgranocchiato un pezzo di finocchio...se sentiremo una grossa differenza tra i due assaggi ci saremo fatti, anche noi, "infinocchiare"!
Da provare
Il Frascati Doc Superiore "Antico Cenacolo" di Cantina Cerquetta di Monte Porzio Catone è un ottimo esempio di "bianco dei Castelli" senza difetti, assolutamente gradevole e di spiccata personalità.
Nicola Taffuri
Pare che essa abbia origini tardo-medioevali. I cittadini romani più facoltosi andavano spesso a fare il pieno di prodotti agroalimentari sui colli attorno alla città eterna. Si trattava, né più né meno, di quelle "gite fuori porta" di cui i telegiornali pasquali e ferragostani si riempiono la bocca ai giorni nostri. Solo che, all'epoca, solo i ricchi potevano concedersi queste scampagnate. E, come accade oggi, spesso si prendevano delle vere e proprie "sole", per dirla in romanesco, dal contadino di turno.
Se oggi il Frascati, specie nella sua versione Superiore, decisamente più strutturata e importante di quella "base", è uno dei vini bianchi più apprezzati d'Italia, nel Medioevo doveva essere qualcosa di poco più che bevibile, per i canoni attuali.
E così gli osti e i contadini dei Castelli Romani, prima di servire il loro vino poverello e squilibrato ai nobili di città, usavano porger loro un assaggio di finocchio selvatico. Questo aveva un duplice effetto: anestetizzava leggermente le papille gustative e lasciava in bocca un'aromaticità piacevole che perdurava anche all'assaggio del vino. Che appariva così meno difettoso e più saporito.
Vallo a spiegare poi, al ricco cittadino, come mai una volta tornato nel suo palazzo con il suo carico di vino dei Castelli, non provasse più le stesse piacevoli sensazioni gusto-olfattive avute qualche giorno prima.
Facile pensare che, come diciamo anche oggi, attribuissero la colpa all'"aria diversa" e al fattore emozionale suscitato dal dolce paesaggio agreste che rende tutto più buono. Invece erano stati "infinocchiati".
Tornando ai giorni nostri, se ci pensiamo bene, al bancone del bar, durante l'"happy hour", troviamo spesso vaschette con sedani e pezzetti di finocchio...
Quando ci capita, il nostro calice di bianco, proviamolo prima a bocca pulita, e poi sorseggiamolo dopo aver sgranocchiato un pezzo di finocchio...se sentiremo una grossa differenza tra i due assaggi ci saremo fatti, anche noi, "infinocchiare"!
Da provare
Il Frascati Doc Superiore "Antico Cenacolo" di Cantina Cerquetta di Monte Porzio Catone è un ottimo esempio di "bianco dei Castelli" senza difetti, assolutamente gradevole e di spiccata personalità.
Nicola Taffuri
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mercoledì 27 agosto 2008
Storia di un giovane casaro
Si chiama Andrea, ha 25 anni ed è originario di Morbegno, nella bassa Valtellina. Oggigiorno diremmo che si occupa della "valorizzazione del territorio e dei suoi prodotti". Qualche tempo fa avremmo semplicemente detto che fa un po' di tutto, dal contadino, al pastore, al vaccaro, al casaro. L'ho conosciuto domenica scorsa nell'alta Val Varrone, un piccolo paradiso terrestre ricchissimo di sorgenti d'acqua, sospeso tra Valtellina e Valsassina.
Mentre mi sto beatamente ingozzando di pizzoccheri seduto su una panca in pieno sole, noto qualcosa che si muove in lontananza, sul versante destro di questa rigogliosa valle a ridosso del Pizzo dei Tre Signori.
Il potente zoom della mia Lumix mi apre un curioso scenario su un tizio che, in sella a una moto da cross, tenta di radunare un gregge di capre.
Pagato il conto al rifugio, mi butto lo zaino in spalla e vado a conoscere da vicino quello strano personaggio che gestisce quella che scopro essere la "Casera Vecchia" di Varrone.
Sul bordo del lavatoio giacciono ad asciugare alcuni telai di legno usati per dare forma al Grasso d'Alpe, strettissimo parente del Bitto, l'illustre formaggio che si fa nella confinante Val Gerola. Appoggiata al muro,una moto da trial impolverata.
"C'è nessuno? Si può avere del formaggio?"
Dalla semioscurità esce un ragazzotto rubizzo e ben pasciuto, con tanto di stivaloni di gomma e grembiule verde militare.
"Dipende quanto..."
"Che formaggio hai?"
"Bitto"
"Ah puoi fare il Bitto anche in questa valle?" lo stuzzico
"No, cioè, è come il Bitto ma non lo posso marchiare"
Dettagli da fanatici di disciplinari di produzione. Del resto la legge parla chiaro. In Val Varrone il Bitto non può chiamarsi Bitto bensì Grasso d'Alpe, nonostante i due siano formaggi identici. Entrambi sono fatti per l'80% di latte intero di vacca e per il 20% di latte di capra. Niente mangimi, gli animali si nutrono esclusivamente di erbe e fieno della valle, e vengono munti due volte al giorno, mattina e sera.
"E'il Grasso d'Alpe, giusto?"
"Giusto. Quanto ne vuoi?"
"Dammene un chilo,va"
E così scopro che la sua famiglia si dedica da tempo all'agricoltura e alla pastorizia in Valtellina, e che lui all'inizio dell'estate porta le vacche e le capre attraverso la Val Gerola fino a scollinare e passare ai pascoli alti della Val Varrone. Ogni estate produce circa 300 forme di Grasso d'Alpe che vende ai negozianti dei Tre Signori che danno il nome alla punta rocciosa che domina la valle: le provincie di Sondrio, Bergamo e Lecco.
Il tono calmo e i gesti misurati mi danno l'immagine di un ragazzo immune dalla solitudine e dalle frenesie della pianura. Del resto lassù, a 1800 metri e più, è facile essere al di sopra di tante cose che ci intossicano la vita di tutti i giorni.
Alla fine azzardo una battuta "Anche a me piacerebbe avere una mucca in giardino"
Lui non coglie la vena ironica e chiosa con un "Eeehhh, sarebbe bello", dal sapore malinconico, e i suoi pensieri vanno alla fine della bella stagione, quando dovrà lasciare quel paradiso e riportare le sue bestie nella stalla, in attesa di una nuova scampagnata sui verdi pascoli della Val Varrone.
Nicola Taffuri
Mentre mi sto beatamente ingozzando di pizzoccheri seduto su una panca in pieno sole, noto qualcosa che si muove in lontananza, sul versante destro di questa rigogliosa valle a ridosso del Pizzo dei Tre Signori.
Il potente zoom della mia Lumix mi apre un curioso scenario su un tizio che, in sella a una moto da cross, tenta di radunare un gregge di capre.
Pagato il conto al rifugio, mi butto lo zaino in spalla e vado a conoscere da vicino quello strano personaggio che gestisce quella che scopro essere la "Casera Vecchia" di Varrone.
Sul bordo del lavatoio giacciono ad asciugare alcuni telai di legno usati per dare forma al Grasso d'Alpe, strettissimo parente del Bitto, l'illustre formaggio che si fa nella confinante Val Gerola. Appoggiata al muro,una moto da trial impolverata.
"C'è nessuno? Si può avere del formaggio?"
Dalla semioscurità esce un ragazzotto rubizzo e ben pasciuto, con tanto di stivaloni di gomma e grembiule verde militare.
"Dipende quanto..."
"Che formaggio hai?"
"Bitto"
"Ah puoi fare il Bitto anche in questa valle?" lo stuzzico
"No, cioè, è come il Bitto ma non lo posso marchiare"
Dettagli da fanatici di disciplinari di produzione. Del resto la legge parla chiaro. In Val Varrone il Bitto non può chiamarsi Bitto bensì Grasso d'Alpe, nonostante i due siano formaggi identici. Entrambi sono fatti per l'80% di latte intero di vacca e per il 20% di latte di capra. Niente mangimi, gli animali si nutrono esclusivamente di erbe e fieno della valle, e vengono munti due volte al giorno, mattina e sera.
"E'il Grasso d'Alpe, giusto?"
"Giusto. Quanto ne vuoi?"
"Dammene un chilo,va"
E così scopro che la sua famiglia si dedica da tempo all'agricoltura e alla pastorizia in Valtellina, e che lui all'inizio dell'estate porta le vacche e le capre attraverso la Val Gerola fino a scollinare e passare ai pascoli alti della Val Varrone. Ogni estate produce circa 300 forme di Grasso d'Alpe che vende ai negozianti dei Tre Signori che danno il nome alla punta rocciosa che domina la valle: le provincie di Sondrio, Bergamo e Lecco.
Il tono calmo e i gesti misurati mi danno l'immagine di un ragazzo immune dalla solitudine e dalle frenesie della pianura. Del resto lassù, a 1800 metri e più, è facile essere al di sopra di tante cose che ci intossicano la vita di tutti i giorni.
Alla fine azzardo una battuta "Anche a me piacerebbe avere una mucca in giardino"
Lui non coglie la vena ironica e chiosa con un "Eeehhh, sarebbe bello", dal sapore malinconico, e i suoi pensieri vanno alla fine della bella stagione, quando dovrà lasciare quel paradiso e riportare le sue bestie nella stalla, in attesa di una nuova scampagnata sui verdi pascoli della Val Varrone.
Nicola Taffuri
giovedì 14 febbraio 2008
Calvados, lo sapevate che...
Nonostante il nome spagnoleggiante, il Calvados è un distillato francese.
Documenti che attestano la sua produzione risalgono al 1553, quando era conosciuto con il nome di "Eau de vie de cidre", l'Acquavite di sidro tipica di una zona della Normandia.
Lì pare si andò ad arenare, intorno al 1588, la nave spagnola "El Calvador" dell'Invencible Armada di Filippo II.
Fu l'Assemblea Costituente creata in piena Rivoluzione francese a dare il nome di Calvados al dipartimento a cavallo tra l'estuario della Senna e la Bretagna, ricordando evidentemente quell'episodio storico. Da lì il nome passò all'acquavite di sidro di mele che si produceva in quella zona.
Il Calvados conobbe uno dei suoi momenti di massima gloria dopo lo sbarco in Normandia da parte delle truppe alleate, nel giugno del '44. I soldati angloamericani conobbero questa eccellente acquavite e ne diffusero la notorietà al ritorno in Patria.
Documenti che attestano la sua produzione risalgono al 1553, quando era conosciuto con il nome di "Eau de vie de cidre", l'Acquavite di sidro tipica di una zona della Normandia.
Lì pare si andò ad arenare, intorno al 1588, la nave spagnola "El Calvador" dell'Invencible Armada di Filippo II.
Fu l'Assemblea Costituente creata in piena Rivoluzione francese a dare il nome di Calvados al dipartimento a cavallo tra l'estuario della Senna e la Bretagna, ricordando evidentemente quell'episodio storico. Da lì il nome passò all'acquavite di sidro di mele che si produceva in quella zona.
Il Calvados conobbe uno dei suoi momenti di massima gloria dopo lo sbarco in Normandia da parte delle truppe alleate, nel giugno del '44. I soldati angloamericani conobbero questa eccellente acquavite e ne diffusero la notorietà al ritorno in Patria.
mercoledì 30 gennaio 2008
Emozione pura
Vitigno internazionale per antonomasia, il merlot ha una grande diffusione anche in Italia.
Dal Friuli alla Sicilia, quasi ogni viticoltore si confronta con questa uva a bacca rossa capace di dare grandissimi vini a latitudini anche molto diverse tra loro.
I risultati, tuttavia, non sono sempre gli stessi.
Se, a detta di molti, non è impresa troppo ardua riuscire a bere un buon Merlot, non è affatto facile scovare quello capace di lasciare il segno, e magari finire nell'immaginaria "top ten" dei nostri vini preferiti.
Insomma, tra bontà ed eccellenza c'è la stessa differenza che passa tra un bel dipinto e un'opera d'arte.
Eccolo qua, allora, il piccolo capolavoro che abbiamo potuto assaggiare in occasione della sua presentazione alla stampa.
Si chiama "Il Puro", è un Piave Doc Merlot del 2006, è prodotto dalla Casa Vinicola veneta Astoria, ed è fresco di conquista del premio come Miglior Merlot d'Italia, un riconoscimento ottenuto alla fine di un prestigioso concorso enologico tenutosi in ottobre ad Aldeno, in Trentino.
Facciamo la sua conoscenza.
La degustazione
Entra in scena con un bel vestito rosso rubino molto intenso e brillante con dei riflessi porpora indicativi della sua giovane età.
La sua opera di seduzione continua con l'eleganza degli intensi profumi fruttati che ricordano i mirtilli e le amarene sotto spirito, accompagnati da sentori di pepe nero e liquirizia.
In bocca abbiamo subito la conferma di trovarci a che fare con un vino corposo e di grande piacevolezza. Ritornano le ottime sensazioni fruttate e speziate percepite al naso, è fresco e giustamente astringente per via di un tannino vispo che tuttavia non disturba affatto. Buona anche la persistenza che ci invita a bere un altro sorso.
Nulla da dire. "Il Puro" è davvero un Merlot ben riuscito, da gustare con qualsiasi piatto a base di carni bianche e rosse, arrosto o alla griglia, serbandone magari un goccio per la fine del pasto. Sarà altrettanto ottimo, infatti, con la Fontina valdostana oppure, tanto per restare nella zona di produzione del vino, con il formaggio Piave.
In enoteca si trova a circa 10 euro, poco per un Merlot di simile fattura. Possiamo berlo ora ma il consiglio è di dimenticarcene qualche bottiglia in cantina. Convinti che, se oggi ci ha sedotti, tra 2-3 anni saprà farci innamorare.
Nicola Taffuri
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