giovedì 30 marzo 2023

Cena valtellinese... vista Gran Sasso

Solitamente quando devo scegliere cosa abbinare alla cucina territoriale preferisco pescare dalle cantine, appunto, del territorio. In occasione però di una recente cena di fine inverno con homemade pizzoccheri, costine e polenta ho deciso di sacrificare una bellissima bottiglia di Montepulciano d'Abruzzo che mi era stata regalata l'estate scorsa da un'amica di ritorno da una vacanza sul Gran Sasso.

Questo vino nasce da uve prodotte sopra i 550 metri s.l.m. sulle colline all'interno del Parco nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga, dove il terreno argilloso-calcareo, unito all'escursione termica tra la potente insolazione diurna e le notti fesche, favoriscono la massima espressione dell'uva montepulciano.
Non bastassero i 15 gradi riportati in etichetta, già dal colore rosso scuro impenetrabile ci si accorge di essere al cospetto di un vino importante, di quelli da versare con attenzione per non rovinare la tovaglia, quella bella. Un pratico sottobicchiere e il problema è risolto.
I profumi intensi di prugna matura, ciliegia sotto spirito, marmellata di amarene si accompagnano a note terrose, selvatiche e speziate che ricordano il cuoio e il pepe nero per sfumare su tonalità balsamiche di eucalipto. Questa complessità aromatica ha un ottimo riscontro in bocca, sostenuta da una vivida acidità e da un ruvido tannino che fanno intuire che questo 2018 è un giovincello che ha davanti ancora un po' di strada da fare. Già pronto oggi principalmente con piatti strutturati di carne, andrebbe rivisto anche tra qualche anno per sondare la sua evoluzione nel tempo, per gustarlo anche a fine pasto con un bel caciocavallo stagionato.
Ottimo come alternativa a un classico Valtellina Superiore con i pizzoccheri, meno bene con carne alla brace o al forno, asciuttina e leggermente amarognola per via delle bruciacchiature. Il tannino, la freschezza e la nota alcolica importante suggeriscono piatti più elaborati con un intingolo, tipo i brasati e il gulasch, dove stemperare alcol e polifenoli.
I vini potenti sono davvero buoni se non ti mandano ko dopo il primo calice, il Testarossa è uno di questi.

lunedì 27 febbraio 2023

Gros Jean, un valdostano dall'accento burgundo

 

Tra le mode del momento sì è fatta strada da qualche anno quella dell' "adozione a distanza" di alberi, stelle, stalle, arnie e...vigneti. E così grazie a mio cugino Marco mi sono ritrovato padre adottivo di un filare di pinot nero in quel di Quart, località valdostana distante, appunto, quattro miglia romane dal capoluogo Aosta, a un'altezza di circa 500 metri sul livello del mare.

Qui l'azienda biologica Gros Jean offre la possibilità di adottare due crus: il più recente Rovettaz e lo storico Tzeriat, posto tra i 750 e gli 800 mt s.l.m. e da dove proviene, appunto, il "mio" Pinot Nero, annata 2020.

Premesso che il pinot nero di stile borgognone è il mio rosso preferito, devo dire che in questo vino ho ritrovato tutte le piacevoli sensazioni provate andando per cantine da Beaune verso nord lungo tutta la Côte d'Or.

Il colore rosso rubino scarico, le intense sensazioni di piccoli frutti rossi e amarene che danzano con i sentori speziati di caffé, liquirizia e sottobosco, mi hanno riportato a quella Francia, spesso tronfia e pretenziosa ma tanto seducente nella sua schietta personalità.

Parliamo comunque di un'annata ancora giovane ma già pronta e alla portata di tutti, da bere tutti i giorni in compagnia di primi piatti strutturati o di secondi di carne, grigliate o arrosto, piuttosto che da assaporare a fine pasto in compagnia di un formaggio grasso di capra o di un gorgonzola nostrano. Volendo giocare con la temperatura di servizio si potrebbe anche abbinare, servito a non più di 14°, a un filetto di tonno o di pesce spada alla griglia. Non siamo nell'olimpo del Pinot Nero, ma nella rassicurante "comfort zone" di un ottimo vino versatile e ben rappresentativo di un vitigno e del suo terroir.

Ultima nota di merito l'etichetta elegante sulla classicissima borgognotta, con stampato il cognome del padre adottivo.

mercoledì 21 dicembre 2022

Natale, tempo di regali ma occhio alle annate!

Da qualche anno i supermercati ospitano dei reparti che sono delle vere enoteche, che sotto le festività spesso propongono offerte che difficilmente un'enoteca potrebbe permettersi di mettere in vetrina. Potenza dei grandi numeri. C'è tanto di buono ma spesso nei grandi numeri si cela anche l'occasione per tutta la filiera, dalla cantina alla gdo, di smaltire qualche fondo di magazzino invenduto. Capita in autogrill, mi è capitato spesso leggendo le newsletters con le offerte dei più noti siti di vendita di vino online, mi è capitato qualche giorno fa in un noto supermercato a Lecco.

Nelle cataste di confezioni regalo mi cade l'occhio su un trittico valtellinese griffato Conti Sertoli Salis.

Ingolosito dal nome e dai 34,90 € della cassetta di legno, mi avvicino per controllare il contenuto della confezione, visto che stavo proprio pensando di inviare un omaggio valtellinese a dei cari amici siciliani. La apro e scopro un Grumello Docg del 2015, un Valtellina Superiore Docg del 2012 e il Saloncello Igt Alpi Retiche, del 2019. Ora, dico io, va bene che i vini da uva nebbiolo hanno un potenziale da invecchiamento che ha pochi eguali tra i vini della Penisola. Tuttavia non stiamo parlando di un grande Barolo o di un rinomato Supertuscan ma di prodotti base di un'azienda vinicola valtellinese dal passato certamente più glorioso del presente. Per intenderci, oggi in Valtellina si può trovare decisamente di meglio. Acquistare confezioni regalo con bottiglie di più di un lustro di età può farci fare davvero una magra figura, quindi occhio al prezzo ma soprattutto all'annata!


lunedì 21 novembre 2022

Teo Costa, il Roero che ti aspetti

Castellinaldo d'Alba visto da Guarene. Sullo sfondo,
il Cervino e il Monte Rosa.
Dalla torre di Barbaresco ammiravo il paesaggio circostante, pennellato da tutti i colori dell'autunno e incorniciato nella magnifica corona alpina imbiancata a fresco, e notavo la piega del Tanaro là sotto, e l'andamento verso nord della corrente, provocandomi una sorta di vertigine dovuta alla mia abitudine lombarda a vedere i fiumi scorrere verso sud. E allora mi sono detto perché non capovolgere anche la prospettiva vinicola e andare a scoprire cosa c'è sulla riva sinistra, nel Roero?.

Al di là dell'aspetto romantico e paesaggistico ero convinto che, per usare il caro vecchio Monopoli come metafora, passando dalle Langhe-Parco della Vittoria al Roero-piazza Giulio Cesare, anche i prezzi dei vini sarebbero stati più accessibili senza rinunciare neanche a una goccia di qualità.

Caduto l'occhio sul bricco di Guarene, dirimpettaio rispetto al feudo di Gaia, apro le mappe di Google in cerca di una cantina in zona e tra le proposte mi si accende una lampadina sul nome di Teo Costa in Castellinaldo. Deja vu o intuito chi lo sa, imposto il navigatore e si parte.

E' un primo pomeriggio di sabato, siamo nel pieno dell'alta stagione del tartufo - a Grinzane Cavour è in corso l'asta - e il cortile di Teo Costa ospita diverse auto immerse nella bruma profumata di vinaccia.

Entriamo in cantina e veniamo subito accolti dalla gentilezza di Viviana Costa che, insieme ai fratelli Manuel e Isabella, rappresenta la quinta generazione di questa famiglia di vitivinicoltori attiva dai tempi di Cavour.

La sala degustazione è molto accogliente e luminosa e offre un balcone sulle Alpi. Lo sguardo cade su alcune bestiole al pascolo nella radura sottostante. "Sono maiali neri piemontesi, che mio padre Roberto ha reintrodotto in questi anni incrociando diversi ceppi di maiale nero italiano per ripristinare questa antica razza autoctona". Muso e colletto bianchi per 200-250 kg di carne eccellente. 

"Mangiano di tutto, in questo periodo principalmente le vinacce di scarto della vinificazione".

L'ottimo salame e lo strepitoso prosciutto serviti in degustazione sono lo straordinario prodotto di questa seconda passione di casa Costa. Ma le sorprese sono appena cominciate.


Dall'Arneis al Barolo attraverso i territori della Barbera e del Dolcetto

La formula proposta è molto onesta e accattivante. La degustazione di 3 vini a scelta costa 20 euro, quella da 5 costa 30 euro. Con l'acquisto di almeno un cartone ciascuno il costo di degustazione viene azzerato. Sul tavolo scorreranno racconti del territorio, dettagli tecnici di vinificazione e grissini a volontà accompagnati dagli strepitosi salumi di nero piemontese e dal leggendario Bettelmatt, il  preziosissimo formaggio prodotto negli alpeggi dell'alta Val d'Ossola che solo un vero appassionato del buon gusto può pensare di proporre in degustazione. Anche in questo scommettiamo che c'è lo zampino del sig. Roberto.

Alla fine assaggeremo sei vini e compreremo un cartone di Roero, uno di Barbera d'Alba e una magnum di Barolo. Non sono rimasto impressionato né dall'Arneis degustato, che mi è sembrato "scappar via" un po' troppo velocemente dalla bocca, né dal Dolcetto, vinificato alla vecchia maniera senza passaggi in botte, per mantenere la sua natura di vino da tutto pasto e da tutti i giorni.

Al contrario, la Barbera d'Alba Docg Castellinaldo ha impressionato per potenza e ricchezza sia all'olfatto sia al gusto. Mi sono permesso di definirla una barbera "barolizzata", perché evidentemente la palestra del passaggio in botte le ha fatto spuntare dei muscoli da vino potente e complesso. Del resto qui si scolpisce questo volto importante alla barbera, per quella acidella, beverina e magari frizzantina chiedere nell'astigiano o nel Monferrato.

Molto buono anche il Roero Docg "Batajot", con le tipicissime note fruttate e terrose del nebbiolo e le speziature dell'affinamento, con un contorno vegetale davvero gradevole.

Dai vigneti in Novello ecco anche uno stupendo Barolo Docg "Monroj" da uve nebbiolo lampia, sontuoso vino da invecchiamento, affinato 30 mesi in botti di rovere grandi più altri sei in bottiglia, con le tipiche note tartufate e di idrocarburi e un ventaglio di aromi che si allarga sorso dopo sorso.

Tutti vini eccellenti, potenti e dall'ottimo rapporto qualità-prezzo. Una cantina dove tornare per godere dell'ospitalità e saggiare l'evoluzione dei suoi prodotti nel corso degli anni. "Arvedse" signori Costa!

lunedì 14 novembre 2022

Il Ribelle della Valvarrone

Anni fa, quattordici per la precisione, organizzai una gita in Val Varrone, angusta valle che da Premana, alta Valsassina, in un paio d'ore di scarpinata sale verso i pascoli a ridosso del Pizzo dei Tre Signori. Non ho la minima idea del motivo per cui mi spinsi ad optare per quella meta, avendo a disposizione nel territorio itinerari ben più noti e frequentati. Sta di fatto che, quel giorno di metà agosto del 2008, lasciata l'auto nei pressi delle rinomate coltellerie del piccolo borgo montano del lecchese, risalii la ripida mulattiera che attraverso i boschi, costeggiando il torrente, conduce fino all'imbocco della valle. Lì fui colto dalla meraviglia dei prati ancora in piena fioritura, a causa di una stagione particolarmente generosa in quanto a piogge.

Dopo un piatto di squisiti pizzoccheri presso il rifugio Casera Vecchia andai a fare visita alla poco distante Casera Nuova, dove scoprii un Grasso d'alpe tanto memorabile che l'avrei usato come termine di paragone per tutti gli altri formaggi che avrei assaggiato negli anni successivi, Bettelmatt e Compté compresi.

Stiamo parlando dell'Olimpo del formaggio d'alpeggio. Bene, quest'anno dopo Ferragosto sono ritornato in Valvarrone per vedere se quella meraviglia provata anni fa fosse ancora almeno in parte confermata. Per la verità mi sarei già accontentato di ritrovare il giovane casaro che allora in sella a una moto da cross radunava le greggi delle capre (perché in questo bitto senza dop c'è cca il 20% di latte di capra), giusto per la soddisfazione di sapere che lassù c'è ancora un presidio del gusto portato avanti dalle nuove generazioni.


Il presidio c'è ancora, il casaro è cresciuto - pure di stazza - e il prezzo del suo Grasso d'Alpe pure: da 10 euro al kg in 14 anni è passato a 18€/kg. La meraviglia è stata la stessa di allora: formaggio gustosissimo, pastoso e super aromatico nonostante la scarsa fioritura dei pascoli complice la stagione secca. Doppia meraviglia. In questi anni il "varrone" è cresciuto anche di lignaggio, entrando a far parte della ristretta famiglia dei "ribelli del Bitto".

A questo link ho trovato un interessante articolo del 2016 su questi casari di Delebio e sullo Storico Ribelle, di cui il Varrone è la massima espressione.

Un formaggio senza compromessi e ricercatissimo perché, oltre a essere squisito, a differenza del Bitto Dop che ha un disciplinare più "elastico" ed esteso geograficamente, non ammette l'impiego di mangimi e seguita ad essere prodotto esclusivamente in alpeggio con gli attrezzi tradizionali (caldera di rame e forme di legno) e la consueta doppia mungitura giornaliera con l'aggiunta di circa il 20% di latte di capra (che nel Bitto invece è facoltativa e non supera il 10%). Lunga vita ai ribelli.

Bruna Alpina

Capra Orobica


martedì 13 settembre 2022

Cenere e vino

Picon, viento y océano. Sta tutta qua Lanzarote, la più selvaggia delle Isole Canarie, forgiata dai vulcani, morsa dalle onde dell'Atlantico e modellata dagli Alisei - quelli che diedero una spintarella a Cristoforo Colombo nel suo viaggio verso il nuovo mondo, per intenderci - che soffiano quasi incessantemente sulle sue coste. Un'isola estrema dall'aspetto lunare con un cuore ricco di meraviglie, proprio come la verde olivina incastonata nella nerissima pietra lavica che ricopre interamente l'isola.
L'ultima catastrofica eruzione fu quella che diede origine al parco vulcanico del Timanfaya, principale attrazione dell'isola valorizzata, come le altre perle locali, da quel geniaccio di Cesar Manrique

Vigneti a La Geria. Sullo sfondo, 
il profilo dell'imponente Caldera Blanca.
Dal 1730 al 1736 le eruzioni coprirono interamente la parte agricola di Lanzarote, costringendo nei decenni successivi gli abitanti rimasti ad abbandonare la coltura cerealicola puntando sulla viticoltura.
Una manciata di ettari in mano a pochi proprietari, spesso legati al potentato ecclesiastico, che hanno adattato la nuova coltura alle condizioni climatiche: viti basse, interrate in piccole fosse di cenere protette dal vento da muretti di pietra lavica. Queste piccole conche aiutano anche a trattenere per quanto possibile l'umidità notturna o delle rare piogge stagionali.
Risultato: poca uva di eccellente qualità, i cui aromi sono amplificati dalle forti escursioni termiche tra il giorno e la notte, come si conviene a una terra posta all'altezza del Sahara, che ogni tanto allunga sull'isola il suo alito caldo tramite la calima.
In un ambiente del genere la scelta del vitigno non poteva che ricadere su una malvasia, uva aromatica già rodata in territori estremi simili, come la nostra Pantelleria.


Lanzarote Doc Malvasia Rubicon 2021
La cantina Rubicon si trova a La Geria, piccola località nel cuore vitivinicolo di Lanzarote, nella zona centro sud, a ridosso del parco vulcanico del Timanfaya. La sua malvasia secca del 2021 è un mirabile esempio di quello che può regalare questa terra solo all'apparenza sterile. Colore giallo paglierino limpido con riflessi dorati, consistente, conquista subito per l'incredibile potenza ed eleganza dei suoi intensi profumi fruttati. Pesca gialla, ananas e mango cedono il posto al pompelmo maturo per sfumare su venature più minerali che ricordano lo zolfo e la polvere pirica. Sensazioni che si ripresentano in bocca, incastonate nel tessuto alcolico importante (13,5°) e che restano a lungo per sfumare su un finale dolceamaro. Un vino sorto dall'inferno per rallegrare la vita dei residenti e dei turisti che decidono di concedersi una pausa all'ombra di uno degli eucalipti fuori dalla bodega.
Per poi portarsi a casa qualche bottiglia da accompagnare a un pesce al forno, a un piatto di crostacei, a un formaggio duro stagionato o a qualche fetta di pata negra
L'ultimo sorso è per chiudere gli occhi e sognare di essere ancora lì, tra picòn, viento y océano. Prezzo in cantina: 10 euro.

sabato 12 dicembre 2020

Il Pelaverga, tanta potenza in una manciata di ettari di Langa

In questi giorni di chiusure imposte e regioni che virano dal rosso al giallo e viceversa, ho ripensato a quell'ultima visita in cantina, nell'anno primo A.C. (avanti Covid) effettuata in una brumosa domenica di inizio novembre di un anno fa. Pullmino carico di  una bella compagnia di bevitori brianzoli goderecci (no, talvolta "brianzolo" e "godereccio" non sono un ossimoro) e via, destinazione le Langhe. Verduno, per la precisione, patria di uno dei cru di Barolo più pregiati, il Monvigliero, e soprattutto feudo esclusivo di produzione del Pelaverga.

A questa uva negra - come veniva descritta nel '400 - le aziende del territorio dedicano sforzi e investimenti per mantenere viva una storica tradizione vinicola sottraendo spazio (in tutto circa 18 ettari) al vicino più blasonato, per continuare a regalare al mondo del vino questo rosso assolutamente unico e inconfondibile per i palati più allenati.

Una di queste è l'azienda Poderi Roset di Silvio Busca, che ci ha ospitati per un racconto lungo e interessante cominciato da queste vigne srotolate sul bricco di Verduno, con una vista a 360 gradi che spazia dal Monviso, a La Morra, Alba e Barolo, e terminato con una interessantissima degustazione tra cisterne di acciaio inox e siringhe a pescare dalle botti l'anteprima del loro nettare prezioso.

Di quella visita, oltre al bellissimo ricordo, ho recuperato di recente l'ultima bottiglia rimasta del Pelaverga Poderi Roset per immolarla davanti a un classico della tradizione gastronomica lombarda: un risotto con vino rosso e salsiccia.

Dei vini degustati un anno fa, devo dire che ero rimasto positivamente impressionato dal Dolcetto, che il buon Silvio aveva presentato sottotono come spesso è il carattere autenticamente modesto e schivo ai complimenti del viticoltore di Langa, e naturalmente il Barolo Monvigliero. Il Pelaverga mi era parso invece un po' troppo esuberante, negli aromi e nella potenza alcolica. In effetti per il 2017 parliamo di un vino da 14 gradi, con un corpo fruttato che mostra i muscoli di un Syrah della Sicilia, tanto per intenderci.

Questo secondo assaggio, complice anche un abbinamento perfetto, mi ha invece letteralmente conquistato.

Verduno Pelaverga Doc Poderi Roset 2017

Colore rosso rubino scurissimo con riflessi violacei, al naso rivela subito la sua esuberanza di frutta rossa, spezie e fiori viola. Piccoli frutti del sottobosco, pepe, ciclamino, lavanda e una punta di pompelmo rosa, e chi più ne ha più ne metta. Ottima la corrispondenza in bocca, dove il corpo fruttato inonda il gusto, accompagnato dal tipico piacevole "pizzicore" speziato e dalla calda carezza della nota alcolica, mantenuta viva da un'acidità giunta al suo apice di maturità. Un vino "grasso" che colora lingua e denti e invita alla beva, ben mascherando i suoi 14 gradi. Sicuramente è perfetto oggi, dopodomani potrebbe già essere in fase calante. Al Pelaverga, del resto, non interessa ambire alla longevità di un Nebbiolo, gli basta fasi riconoscere e apprezzare per quello che è: un vino saporito, corposo e profumato che non ha alcun interesse a mostrare muscoli che non ha. Non ha una grande acidità né un tannino importante, di conseguenza va bevuto ancora relativamente giovane, entro 2-3 anni dalla vendemmia, per apprezzare meglio un frutto e una florealità che potrebbero appassire e appesantirsi rapidamente da un anno con l'altro. In una terra costellata di gioielli il Pelaverga è un ottimo prodotto artigianale per tutti i palati e i portafogli, visto che il prezzo delle bottiglie difficilmente supera i 10 euro. Ed è una vera goduria.

Abbinamenti: primi piatti con carni, risotti con salsiccia e funghi, costolette di agnello, formaggi di media stagionatura, anche a pasta morbida.