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giovedì 30 settembre 2010

Un Montecompatri da "Promised Land"

In questi giorni stavo liberando il cell da una marea di sms che mi avevano intasato la memoria della Sim e mi sono ritrovato questo messaggio salvato nella cartella bozze.
"Virtù Romane, Tenuta Le Quinte, Montecompatri Superiore 2008".
E mi sono ricordato.
Della lunga attesa fuori dall'Olimpico, della voce di Bruce che rimbalzava contro la Monte Monte Mario con un'irriverente eco, della caccia alla band, di Trastevere e di quella bandana in vertina.

A CENA CON LITTLE STEVEN
Domenica 19 luglio 2009, stadio Olimpico di Roma. Prima delle tre tappe italiane del nuovo tour di Bruce Springsteen con la E Street Band, a un solo anno di distanza dal mostruoso Magic Tour. Inizio previsto ore 22, per colpa della concomitanza dei mondiali di nuoto, in scena nell'adiacente villaggio olimpico. Concerto bello ma non epico, per via della lunga snervante attesa e di un'acustica pessima. Ma il Boss come al solito non si risparmia e, tra cavalli di battaglia vecchi e nuovi e ripescaggi a sorpresa, manda in delirio lo stadio.
Tant'è che, sulla scia dell'esaltazione della sera prima, il lunedì lo passiamo a dare la caccia alla band, asserragliata nell'Hotel De Russie, a due passi da piazza del Popolo.
Ed è così che, tra una fugace stretta di mano a Charlie Giordano e una pacca sulla spalla a Max Weimberg, un autista ci fa la soffiata: Bruce e Little Steven andranno a cena in un noto ristorante a Trastevere, dalle parti di Ponte Cestio.
Risultato: dopo aver battuto in lungo e in largo le numerose trattorie e pizzerie del quartiere tiberino, mia sorella ci dà la dritta che aspettavamo:
"Da quella vertina si vede un tipo con la bandana...".
Eccolo. Little Steven. E...Bruce?
L'insegna è quella dell'Osteria La Gensola.
Entriamo e veniamo accompagnati dal cameriere nella saletta interna, osservando di soppiatto la tavolata del chitarrista newyorkese alla ricerca di un suo sguardo e, soprattutto, del suo Boss. Nulla. Little è da solo, con amici. Però, che figata...a cena nello stesso ristorante di Little Steven!

Volevo il Frascati ma...viva il Montecompatri!
La cena è stata ottima, il locale delizioso e il personale molto cordiale.
Altri dettagli, via di uno stupendo spaghetto cacio e pepe e di un'amatriciana da urlo, non li ricordo, tale era lo stato di trance al pensiero che verosimilmente, di lì a poco, avrei conosciuto una leggenda del rock.
Però il nome del vino me lo sono segnato sul telefonino.
Avevo chiesto un Frascati Superiore ma il sommelier, figlio del titolare, è riuscito a rifilarmi un'altra etichetta con la sfacciata spontaneità che solo i romani e i napoletani riescono ad avere.
Però mi è andata bene, perché ho scoperto un grande vino bianco di una denominazione che non avevo ancora assaggiato: Montecompatri Doc Superiore "le Virtù Romane" 2008, Tenuta Le Quinte.
Accattivante blend di tutte le uve bianche tipiche del Lazio, dalla malvasia puntinata, al trebbiano, bellone e bonvino, si presenta al naso con fragranti profumi di pesca, caprifoglio, erba fresca e mandorle, sospinti da un delicato alito etereo molto seducente. Sensazioni che ritornano in bocca inserite in un corpo di grande freschezza e buona struttura, per un vino che invoglia fino all'ultimo sorso e si congeda con un appetitoso retrogusto fruttato e ammandorlato. In enoteca si trova a circa 10 euro, per una gradazione alcolica di 13,5%.
E Little Steven? Beh, addolcito dalla buona cena e sedotto dal vino romano, si è concesso per sigaretta e foto di rito, con tanto di battuta ironica quando gli abbiamo detto che l'indomani ci saremmo rivisti a Torino e, due giorni dopo ancora, a Udine.
"You're crazy, my friends!".

venerdì 26 marzo 2010

Vini Pellegrini: appunti da Villa Cavenago (2a parte)


Veniamo ai bianchi e cominciamo dal nostro vicino di casa, ovvero da quel Solesta, particolare blend di chardonnay, riesling e manzoni bianco, che nasce dai vigneti terrazzati dell'azienda La Costa di Montevecchia, prezioso angolo di Toscana sospeso tra Lecco, l'Adda e Milano.

Fermentato in massima parte in vasche d'acciaio con una piccola percentuale che passa invece per la botte grande, il vino viene poi affinato parte in barrique e parte in vasche di cemento; dopodiché un ulteriore anno di permanenza in bottiglia completa la sua maturazione.

Quando a Claudia Crippa, giovane figlia del titolare Giordano, chiedo notizie dei nuovi scassi e terrazzamenti che l'autunno scorso, di passaggio per una scampagnata a funghi, ho notato sulle colline nei pressi delle tre cascine - Costa, Scarpata e Galbusera Nera - di proprietà dell'azienda, lei si schermisce promettendo: "sì però ora basta, con questi arriviamo a 12 ettari e per una piccola realtà come la nostra sono già più che sufficienti".
Per poi tornare al vino: "com'è, ti piace?".

Piace, piace eccome. Fresco e floreale, parte di slancio con la frutta gialla dello chardonnay per poi rendere il giusto merito anche all'eredità del riesling, percepibile in fini note muschiate e di pietra focaia. La barrique c'è ma non appesantisce una beva che tiene bene e si fa via via più intrigante assaggio dopo assaggio. Da servire fresco ma non freddo, magari in compagnia di un risotto alle verdure oppure con un piatto di formaggi a pasta morbida tipici di Montevecchia o anche con un Quartirolo o un Taleggio della vicina Valsassina.

Del Pinot Nero Sangiobbe, per il quale l'azienda ha profuso i suoi sforzi maggiori in questi anni cercando la migliore collocazione dei vigneti e affinando le più efficaci tecniche di lavorazione in cantina, ne parleremo in seguito.

Ora andiamo in Sardegna ad assaggiare il Vermentino dell'azienda 6 Mura, ultima arrivata in casa Pellegrini.

VERMENTINO DI GALLURA O DI SARDEGNA?
Assieme al titolare del ristorante dove lavoro eravamo alla ricerca di un Vermentino di Gallura, quindi DOCG, buono, tipico e meno conosciuto dei vari Sella e Mosca e simili.
Lo abbiamo detto al simpatico mescitore sardo e lui ci ha proposto un indovinello:
"ve ne faccio assaggiare due e voi dovete indovinare quale è il Doc di Sardegna e quale il Docg"
.
Mica facile, entrambi eccellenti. Mi butto su quello più strutturato.
"Il Gallura è lui".
"Giusto. Ma anche quell'altro. Cambiano solo le annate".
Fresco, sapido e floreale, secco come il vento carico di salsedine che batte le vigne del nord dell'Isola e ricco delle dolceamare sfumature mediterranee che gli regalano un carattere inconfondibile. Peccato per la pessima grafica dell'etichetta ma pace. Avevamo trovato il nostro Vermentino.
continua...

martedì 16 marzo 2010

Grande degustazione di Vini Pellegrini: appunti da Villa Cavenago (1a parte)

Cielo blu terso e un ottimo afflusso di visitatori, per la maggior parte ristoratori e qualche giornalista affamato, hanno accompagnato il primo della due giorni di degustazioni (8-9 marzo) nei saloni patrizi di Villa Cavenago a Trezzo d'Adda, sede del grande banco d'assaggio organizzato da Pellegrini Spa per promuovere tutte le etichette italiane ed estere del suo corposo listino.
Presenti molti dei produttori, disponibili alla chiacchiera come nemmeno al Vinitaly e davvero notevole lo spazio dedicato ai distillati, dal quale tuttavia ho deciso a malincuore di restare fuori per motivi squisitamente etilometrici.

Abbandonato dopo due sorsi il rigoroso ordine di degustazione spumanti-bianchi-rossi-passiti, ho assaggiati tanti, forse troppi, vini senza ordine logico e senza cedere, come al solito, all'uso della sputacchiera. Non mi ci abituerò mai, che vi devo dire. Mi par di mancar di rispetto ai produttori. Questa, almeno, è la scusa.

Vale la pena però rimettere ordine alle idee e indicare qualche etichetta che mi ha davvero ben impressionato. Partiamo, quindi, dall'aperitivo.
Vai col Prosecco. Conegliano e Valdobbiadene, naturalmente, freschissime di DOCG.
La maliziosamente simpaticissima Cinzia Canzian, pierre dell'azienda 100% femminile Le vigne di Alice, ci conduce in un assaggio "dal morbido al duro" attraverso la piacevole cremosa beva dell'Extra Dry fino alla stuzzicante secchezza del Brut Doro e all'eleganza del tradizionale Brut Tajad, figlio, appunto di un taglio delle storiche uve bianche locali verdiso, prosecco, boschera e bianchetta.
Tre spumanti dal look raffinato e di qualità eccellente, con un buon rapporto qualità-prezzo e fatti da donne (Alice è la defunta nonna). Che vogliamo di più come aperitivo o come tutto pasto leggero in una bella giornata di sole primaverile?
continua...

mercoledì 6 maggio 2009

Esame Ais, cronaca della prova orale

Come al solito non bisognerebbe mai dare retta ai racconti degli esaminandi che finiscono sotto torchio per primi. C'è chi, uscito dalla sala di degustazione con annessa camera della tortura, suggerisce tremante l'orrorifico monito "Non andare dal commissario", chi invece consiglia in lacrime di evitare "il bergamasco", secondo esaminatore.
Poi, alla prova dei fatti, capisci che, come sempre, "il diavolo non è mai brutto come lo si dipinge". Certo, non bisogna farlo imbufalire. Su alcune nozioni fondamentali non si può transigere e occorre concentrarsi su quelle. Dove si trova il Pomerol, per esempio, come funziona il "metodo champenois" o, ancora, quali sono i passiti rossi secchi d'Italia (es. Amarone e Sforzato). E pazienza se non ti ricordi tutte le zone vinicole del Cile o tutti i vitigni dell'Argentina, e se la tensione ti fa dimenticare che il petit rouge è un'uva valdostana. Quelle sono domande fatte ad arte per avere subito un'idea del grado di preparazione dell'allievo. E' evidente, infatti, che se uno è in grado di recitare a memoria i gradi Oeschle dei QmP tedeschi presumibilmente saprà anche la differenza tra il Barolo e il Barbaresco e i loro comuni di produzione. Così come ricorderà le diverse sottozone del Chianti e l'uva con cui è fatto il Taurasi. Non sono i dettagli a fare la differenza. Però sono inammissibili errori sui vini più famosi d'Italia e di Francia. E non sapere la differenza tra la birra e un distillato. Oppure abbinare una crostata di frutta con un Franciacorta Extra Brut.
Un consiglio, quindi. Concentrarsi sui macroargomenti e, per ognuno di questi, ricordarsi qualche nozioncina da sciorinare con nonchalance. Ad ogni modo non crediate di essere promossi solo perché avete pagato fior di quattrini i 3 corsi Ais. Ne va della reputazione di tutta l'Associazione.
N.T.

mercoledì 22 aprile 2009

Terzo livello Ais, cronaca dell'esame scritto

Che non sarebbe stata una formalità già si sapeva. E meno male. Dopo tanto dispendio di tempo, fegato e denaro per frequentare i tre livelli dell'Associazione italiana sommelier ci sarei rimasto davvero male se il temuto esamone finale si fosse risolto "a tarallucci e vino". Invece, nel mio caso, è finito a Chianti Classico e Pecorino Senese. Anzi, iniziato, visto che i giochi sono cominciati intorno alle 14,30 proprio dalla valutazione di un bianco (Sauvignon) e dalla scheda di abbinamento vino e cibo. All'altra metà dei corsisti è toccato valutare, invece, un bianco col vitello tonnato.
Piatti freddi, avevamo preventivato. E piatti freddi sono stati.
Dopodiché via con il questionario. Vero falso, domande a risposta multipla. Fino a giocarsi tutto sulle 10 domande aperte, quelle più pesanti ai fini del punteggio finale. Constatazione. Se si arriva all'esame senza lacune particolari le dieci domande sono assolutamente accessibili.

A spanne, a me è toccato:
1) Docg e relativi vitigni di Veneto, Abruzzo e Campania.
2) Procedimento di produzione della birra e differenza tra birre ad alta e bassa fermentazione.
3) Quali sono le 3 voci nella scheda vino che pesano più per coefficiente di punteggio (e qual è il coefficiente).
4) Differenza tra Whisky e Whiskey e metodo di produzione del Whisky scozzese.
5) Fillossera
6) Maturazione fenolica e maturazione tecnologica
7) Vitigni, zona di produzione, tipologie di Porto
8) 3 esempi di abbinamento x concordanza di vini e piatti aromatici
9) risotto, scampi e zucchine: caratteristiche e tre vini da abbinamento
10) California: zone vinicole e relativi vitigni

Qualche nozionismo "spinto" solo nei vero-falso e nelle risposte multiple (es. gradi Babo e acidità dell'Extravergine), ma tanto quelle valgono poco.
Consapevole di aver inevitabilmente scritto qualche minchiata, confido nell'orale. Appuntamento al 5 maggio. Stay tuned.
N.T.

sabato 4 aprile 2009

Tra sorprese e conferme, al Vinitaly si scavalla anche la crisi

Potremmo eleggere a simbolo del Vinitaly 2009 la gigantesca macchina scavallante di fabbricazione olandese che incombe minacciosa al centro del piazzale tra i padiglioni di Puglia e Toscana. Pare uscita direttamente da Terminator per scavallare vigne e crisi. Crisi? Il mondo del vino riunito nell'annuale appuntamento a Verona per la manifestazione enologica più importante del pianeta pare godere di perfetta forma, immune dalle sciagure dell'economia mondiale. Almeno, questa è l'impressione che ho avuto nella mia consueta due giorni, giovedì e venerdì, riservata agli operatori.
Ma si sa, questi eventi sono fatti apposta per, appunto, mettersi in mostra comunque e nonostante tutto. Per regalare sorrisi a profusione, farsi dei gran complimentoni e distribuire generose strette di mano a destra e a manca. E la crisi? Non c'è. Arriverà, forse. L'onda lunga dello Tsunami bancario scoppiato in America deve ancora travolgere il settore vinicolo europeo, specie quello italiano e francese, i due principali esportatori di vino del mondo. Tuttavia l'impressione è che la tanto paventata "onda lunga" arriverà, se arriverà, giusto a bagnare le punte dei piedi ai nostri produttori. Che si fanno forti di una fama costruita in anni e anni di lavoro serio, di selezioni in vigna sempre più esasperate, di sopraffine tecniche di cantina, di investimenti sull'enoturismo che fanno ben sperare.

Detto questo, parliamo di vino. Ho scoperto che l'Asprinio di Aversa di Grotta del Sole fa capottare in veranda da tanto che è buono, così come il loro Gragnano sorrentino, uno stupefacente rosso frizzante degno del miglior Lambrusco padano. Ho avuto la conferma che di Lugana del Garda me ne berrei intere autocisterne, non a caso il vitigno è parente strettissimo del mio amato Verdicchio marchigiano. Così come il Sauvignon del Veneto e il Gewurztraminer altoatesino mi fanno godere come un matto. Non posso dire altrettanto delle mediaticamente pompatissime bollicine Docg di una nota azienda dell'Oltrepo che in sala stampa ha scatenato una sadicissima caccia alla puzza tra me e un paio di colleghi. Alla fine ha vinto il sentore di sudore secco di ascella di vignaiolo con maglia di lana. Quando ci si mette, il pinot nero sa essere ancor più capriccioso e fetente dei giornalisti!
Ho scoperto quanto sono buoni tutti i nebbiolo del Piemonte minore, soprattutto quelli di Boca, Lessona e Carema.
Mi sono illuso di essere al cospetto del mitico Giovanni Cherchi, icona della vitivinicoltura di Gallura e autore di un Vermentino e di un Cagnulari assolutamente impareggiabili. E invece era un suo parente affiancato dai nipoti del titolare, intagliati in lineamenti duri e cortesi alla Gianfranco Zola.
Ho avuto la conferma che l'Aglianico se la gioca alla grande con il Barolo per l'élite del miglior rosso d'Italia, quindi d'Europa, quindi del mondo.
Ho dovuto anche ricredermi sul Chianti Classico, che ho sempre giudicato "roba per americani" e che, invece, può ancora essere un grandissimo grazie a qualche produttore fedele per lignaggio alle tradizioni, come il Conte Sebastiano Capponi, o a enotecnici intelligenti e moderni come Paolo de Marchi di Isole e Olena, di cui ho apprezzato molto di più lo schietto Chianti Classico 2006 che non il blasonatissimo supertuscan Cepparello, annata 2005.
Ma, più che tutto, ho avuto la conferma che, spesso, le soprese migliori e gli aneddoti più interessanti è facile che arrivino proprio dagli stand meno frequentati dai lettori di guide, riviste e annuari vari. Metti il vino di San Colombano, per esempio. Il cosiddetto "vin de Milan", che in realtà è più piacentino che meneghino. Lo fanno una quindicina di aziende su una collina a sud di Lodi, a circa 50 km da Milano, presso il confine con l'Emilia. Indimenticabile, per esempio, il Franco Riccardi dell'azienda Nettare dei Santi, sorta di delizioso ed economico (solo 8 euro!) "Sforzato" o "Amarone", vedete un po' voi, da appassimento di uve merlot e cabernet sauvignon. Davvero un vino della madunina!
Nicola Taffuri

domenica 29 marzo 2009

Nebbiolo Grapes: uno splendido Giornata

Dispiace per il tempo cupo e piovoso assai, altrimenti si sarebbe potuta fare qualche bella foto primaverile delle terrazze vitate sopra Sondrio, quelle della sottozona Sassella. E magari inserire nella cornice i monti circostanti ancora carichi della neve caduta quest'inverno, finalmente copiosa più per la felicità delle località sciistiche che di quella dei glaciologhi, ormai rassegnati all'innesorabile arretramento dei ghiacciai alpini. Ma non si può aver tutto. Il Nebbiolo Grapes 2009 è ben valso la scampagnata in Valtellina. Tra andata e ritorno, 200 km di Statale martoriata dal maltempo e dal traffico pesante.
Dovendo purtroppo fare i conti con il bisogno vitale di conservare la patente e con la mia assoluta incapacità di servirmi delle sputacchiere, la giornata a tu per tu con 200 etichette di Nebbiolo di tutto il mondo ha imposto delle scelte obbligate. Assaggi mirati alle aziende meno note di Valtellina e Piemonte, luoghi d'elezione di questa prodigiosa uva italiana, e grande curiosità per i loro fratellini sparsi qua e là tra Australia, Sud Africa e California. Risultato: forse il nebbiolo, con la pazienza e la dedizione che si conviene ai grandi vecchi, è capace davvero di imparare a parlare l'inglese. L'inflessione californiana è quella che gli riesce meglio.

Il Nebbiolo della South-Central Coast
Le luccicano gli occhi a Stephy Terrizzi, la giovane titolare della californiana Giornata Wines, mentre sull'avveniristico cellulare (vive a Paso Robles, 133 miglia a sud della Silicon Valley!) del marito Brian mi mostra i loro due biondissimi gemellini che mangiano a piene mani i dolcissimi grappoli maturi del nebbiolo di famiglia. Il paesaggio ricorda a tratti quello della Maremma del Morellino, se non fosse per gli inquietanti primi piani sulle pelose tarantole grosse come una mano che bazzicano tra i sassi bianchi dei vigneti. Megalomani pure con gli aracnidi, 'sti americani.
E pure avventurosi fino a sconfinare nell'irriverenza, quando scopri che, a differenza della stragrande maggioranza dei produttori californiani, i coniugi Terrizzi hanno snobbato zinfandel, cabernet, merlot e pinot nero per impiantare invece barbatelle di nebbiolo e sangiovese, i due vitigni di cui noi italiani siamo più fieri e gelosi. E poi pure il moscato giallo, con cui fanno una sorta di delizioso Vin Santo.
Poi, invece, ci parli assieme e scopri una spontaneità, un'umiltà e una passione assolutamente contagiose, che sono il migliore risarcimento per il dolore di tutte quelle famiglie di coloni che nei secoli hanno inseguito il miraggio della Terra Promessa, finendo spesso con il lasciare le loro ossa a sbiancare lungo le piste per la California.
Confida Stephy "In questa zona la terra costa molto meno che in Napa. E poi noi siamo pazzamente innamorati dell'Italia e dei suoi vini".
Del loro Nebbiolo 2006 ne hanno fatte solo un migliaio di bottiglie. Un vino, di conseguenza, assolutamente sperimentale. Ma, vi assicuro, durante gli assaggi è riuscito a conquistare gli elogi anche del più accanito barolista. Riconoscibile, corpulento ed elegante, con un tocco ben dosato di morbidezza all'americana ma per nulla prevaricante sul carattere indomito del vitigno.
Nicola Taffuri

mercoledì 18 marzo 2009

Globalizzazione fuori moda

Ormai siamo agli sgoccioli con il corso Ais. A fine aprile mega-esamone generale e poi via, tutti a 'mbriacarsi in giro x il mondo. Un mondo di colori, carnagioni, lacrime amare e sorrisi brillantati, volti rugosi cotti dal sole, lifting e paillettes, unghie sporche di terra, cantine fantascientifiche e piccoli laboratori alchimistici. Un universo di colori, profumi e sapori che alle volte, alle latitudini più disparate, ci fa esclamare "Quant'è piccolo il mondo!". Da anni ormai il miglior Sauvignon non è più quello della Loira ma quello neozelandese, così come il Syrah australiano le suona tranquillamente a quelli dell'alta valle del Rodano e di tagli bordolesi capaci di stare al passo con un buon Bordeaux ne è pieno il Pianeta, da Bolgheri alla California. Così come in Cile possiamo bere una buona Bonarda e qualcuno, in altri continenti, comincia pure a cimentarsi con il mitico nebbiolo, il più grande vitigno italiano, fino a pochi anni fa escluso dagli interessi degli investitori esteri.

Globalizzazione? Forse. Ma, se ci pensiamo bene, la tendenza globalizzatrice non ha sempre fatto parte della storia della civiltà? Da quando esistono i commerci le società si sono sempre scambiate prodotti di ogni genere, agricoli, manifatturieri e persino "merce umana". Il riso ce l'hanno portato mille anni fa gli Arabi assieme allo zafferano (--> az-za-faran), così come il pomodoro, il mais e la patata , i peperoni e le melanzane sono gentile omaggio degli indios d'America, il grano è originario della Cina, mentre gran parte della frutta così come ogni vitigno di vitis vinifera sativa, quella commestibile e adatta per fare il vino, proviene dall'Asia Minore. E questo solo per citare gli esempi più clamorosi di questo tipo di antica globalizzazione che ha salvato nel corso dei secoli miliardi di persone dalla carestia e dalla denutrizione. In tempi più recenti il commercio globale ha pure consentito a storiche economie locali non solo di sopravvivere, ma anche di trarre grandi profitti vendendo altrove prodotti di alta qualità che altrimenti sarebbero rimasti confinati in un anonimato ad uso e consumo della gente del posto. Penso alla Valtellina e alla sua Bresaola fatta interamente con manzi provenienti da Brasile e Argentina, così come il grano saraceno dei pizzoccheri e degli sciatt viene oggi importato dalla Cina, peraltro sua vera terra d'origine.
La globalizzazione ha cominciato ad assumere una connotazione negativa con l'inarrestabile intensificazione dei traffici aerei e con l'imposizione sul mercato di poche cultivar geneticamente modificate e rinforzate chimicamente da parte delle multinazionali alimentari, chimiche e farmaceutiche. E' a quel punto che il millenario scambio di merci ed esperienze è deragliato su un campo minato, andando dietro alla perversa tirannide del mercato globale ma dimenticando le sacre leggi della Natura e dei suoi tempi. In nome di un mercato vorace e impaziente e delle sue spietate strategie di marketing, la nuova globalizzazione non porta più ricchezza ma impoverisce ciò che abbiamo di più prezioso: la VARIETA'. Inaridisce la biodiversità premiando pochissime specie vegetali e animali superresistenti e superproduttive, e allo stesso tempo devasta le economie locali asservite alla produzione di monocolture da destinare agli insaziabili mercati occidentali. A noi. La forma mentis di chi favorisce tutto ciò è la stessa di chi vorrebbe che ognuno parlasse la stessa lingua e predicasse la medesima religione, prendesse gli stessi medicinali e guardasse gli stessi programmi televisivi. In nome del profitto e del consenso, ci dimentichiamo che quello che ci ha salvato dall'estinzione è stata proprio la ricchezza e la varietà, di razza e di cultura, anche alimentare. La salvezza non può passare che da un rinnovato rispetto dei cicli stagionali e delle economie locali, cercando di portare in tavola sempre e comunque i prodotti del territorio provenienti da aziende di piccole o medie dimensioni. Quelle che non sono soggette alla tirannide delle multinazionali finanziarie. Slowfood lo dice da più di vent'anni e ha fondato pure una rete internazionale che si chiama Terramadre. Oggi finalmente pare che essere "bio" e "local" sia diventato trendy e il consumatore stia interessandosi anche a questa nuova moda, una volta tanto virtuosa. A dimostrazione di ciò vale la pena segnalare il fenomeno dei numerosi Gruppi di Acquisto Solidale (GAS) che stanno sorgendo in tutta Italia.
Nicola Taffuri

venerdì 27 febbraio 2009

Wurstel fallici e gastronomia dopata

Se amate i wurstel non leggete questo post. Se siete i fedelissimi dell'hot-dog, quello che vi sparate all'uscita dallo stadio oppure al chiosco tra il benzinaio e il semaforo, di ritorno dalle vostri folli nottate alcoliche, abbandonate la pagina e tornate a cazzeggiare su facebook. Sto per svelarvi quali sono alcuni degli ingredienti del vostro tremolante e cadaverico salsicciotto preferito. E dubito che, dopo averlo saputo, continuerete a ingollarlo di gusto e a fare le solite stupide battute ammiccanti l'organo sessuale maschile.
Prima però, vi dico due-tre cosine su degli altri alimenti. Vi chiederete "ma che cacchio c'ha questo oggi?" Niente. E' solo che ai corsi per diventare sommelier insegnano anche come riconoscere un prodotto di qualità da quelli fatti in fretta e furia per soddisfare l'avidità del mercato, oppure addirittura confezionati con lo scarto dello scarto della materia prima iniziale. E in questi giorni abbiamo parlato di carni e salumi. Continua qui...

mercoledì 14 gennaio 2009

Ultimi Raggi ricordando Marco

Dal 2002 è sempre un vendemmia tardiva ma è entrato nella denominazione Valtellina Superiore Docg Sassella. Fino al 2001 è stato invece un Terrazze Retiche di Sondrio Igt, nebbiolo in purezza. Io ho avuto il grande privilegio di assaggiare proprio quell'ultima annata di quello che potremmo tranquillamente definire, facendoci gioco degli amici toscani, un "Supervaltellinian". Anche se, vista la limitata quantità di bottiglie prodotte, l'Ultimi Raggi non ha la competitività internazionale dei blasonati Igt toscani noti come "Supertuscan" (vedi il Fontalloro della Fattoria di Felsina, il Tignanello dei Marchesi Antinori, il Suolo di Argiano, l’Acciaiolo del Castello d’Albola e via dicendo).
Il produttore di questo superbo valtellinese è la famiglia Pelizzatti Perego (Ar.Pe.Pe.), profondi conoscitori del nebbiolo e vignaioli senza compromessi. I loro vini lasciano la cantina quando sono davvero pronti, il mercato può aspettare. Si fanno attendere, come gli ospiti più importanti, ma quando arrivano prendono la parola e non ce n'è più per nessuno.

La degustazione presso l'Agriturismo Il Ronco, Garlate (Lc), 0341.682523
Attenzione quando lo stappiamo. Il tappo è lungo e per metà ben intriso di vino, quindi se non andiamo fino in fondo con la vite rischiamo di romperlo.
Ve lo dico perché a me è successo e mi sono sentito un po' un pirla, per dirla alla Mourinho.
Per favorire una giusta ossigenazione abbiamo usato un décanter, nel timore, rivelatosi poi inutile, che ci potesse essere del deposito sul fondo della bottiglia.
Colore granato, scuro e consistente. Profumi ampi ed eleganti, ricchi di magnifici sentori di more e ribes, ciliege sotto spirito, viole appassite e rosa canina, accompagnati da deliziose note di tabacco, pepe nero e humus.
In bocca è morbido, caldo ed avvolgente, è sapido, ha ancora una buona acidità e un'elegantissima componente tannica. Le sensazioni avute al naso trionfano in un corpo da fuoriclasse e continuano a deliziare a lungo il palato.
A mio avviso questo vino se la gioca alla grande con i migliori Sforzati, guadagnandoci qualcosa in facilità di beva grazie ai suoi 13,5 gradi alcolici. Giusti per un vendemmia tardiva, pochi per un passito quale è lo Sforzato.
Noi lo abbiamo accompagnato a un Bitto da capogiro, delle estati 2008 e 2007.
Le forme erano quelle che Marco Donizetti, l'infermiere morto prima di Natale cadendo dalla parete Medale del Monte San Martino (Lecco), era andato a prendere con le sue mani negli alpeggi della Val Gerola, cuore della zona di produzione. Io non l'ho conosciuto, ma sono sicuro che un ragazzo 34enne con moglie, figlia e un grande amore per la montagna, la natura e il "fare caciara" attorno a una tavola non poteva che essere una persona speciale.
Nicola Taffuri

domenica 11 gennaio 2009

Italici luoghi comuni

Ieri sera sono andato con un'amica in una pizzeria in Brianza. Bel posto, uno tra i più gettonati della zona, servizio cortese e puntuale, pizze impeccabili. Per gli standard lecchesi, s'intende.
Dopo aver faticato un buon quarto d'ora per convincere la mia compagna di tavola che il vino non è più "cosa da vecchi" - ebbene sì, molti giovani la pensano ancora così! - all'uscita mi è toccato alzare nuovamente gli scudi in favore del vino italiano proprio con il gestore del locale. Tipo simpatico ma, in quanto astemio, persona decisamente poco lucida. Irrimediabilmente convinto che la figura del sommelier con tanto di tasse-de-vin appeso al collo sia qualcosa di superfluo che solo i ristoranti cinquestellati si possono permettere.
Ma dico io, possibile che ci sia gente del settore che crede ancora che ogni sommelier è come il Paolo Lauciani nosioso e ingessato dell'altrettanto noiosa e ingessata rubrica del Tg5 "Gusto"? Un sommelier bravo, capace e cordiale può benissimo lasciare palandrana e tasse-de-vin a casa e presentarsi al nostro tavolo con tanto di maniche rimboccate e grembiule macchiato di sugo. Allargare le braccia con aria profetica e rivelarci, a voce bassa: "Ditemi cosa desiderate e lasciate fare a me, ci penso io a farvi godere". Senza buttarla necessariamente sull'"hard" o sul "trash", la competenza del sommelier, inteso come esperto di vini e abbinamenti, è fondamentale per qualsiasi ristorante, agriturismo e trattoria di buon livello. Un po' meno per quegli strani ibridi che sono i ristoranti-pizzerie. Lì può essere sufficiente anche la simpatia di un oste astemio.
Nicola Taffuri

sabato 27 dicembre 2008

Quazzolo, che Barbaresco!

Non è che ne abbia provati proprio tanti, di Barbaresco. Ma la bottiglia che ho aperto ieri a Santo Stefano mi è proprio piaciuta e ha reso ancora più buoni gli avanzi di Natale. Che, a chiamarli avanzi, si fa un torto a chi muore di fame.
Tra i piatti che sono sfuggiti alla fame atavica dei convitati natalizi c'era una saporitissima corona di costine di maiale, del branzino al forno, forse un po' troppo ricco di salsa, e dello spezzatino di tonno, cotto in un delizioso sughetto leggermente piccante.
Tolta la bottiglia dalla mia gelida cantina solo una mezz'ora prima del pranzo, l'ho subito stappata e messa in tavola.
Poi ne ho versato un goccio nel mio calice, per tenere la temperatura sotto controllo.
Complice il freddo che inibisce le sensazioni olfattive dei grandi rossi da invecchiamento, questo vino ci ha messo un po' a riprendersi. Poi, grado dopo grado, ha cominciato a ingranare e a fare le debite presentazioni. Approfittando di una temperatura ancora sotto i 16 gradi, prima di dare l'assalto alla corona di costine ho voluto metterlo a confronto con i due piatti strutturati di pesce. E qui c'è stata la sorpresa. Non avrei mai pensato che un simile abbinamento potesse essere così sublime.
Stupendo anche, con un paio di gradi in più, accompagnato al secondo di carne.
Insomma, Barbaresco beverino? Ma sì, perché no!

Barbaresco Docg 2005 di Quazzolo Carlo
Colore rosso granato scarico con riflessi aranciati, bello limpido e consistente.
Naso in crescendo, ricco di sentori di frutta rossa matura, di fiori secchi, bergamotto e spezie come la cannella e i chiodi di garofano.
Gusto pieno e avvolgente, secco e morbido, moderatamente fresco e tannico, di bella sapidità. Buono il riscontro gusto-olfattivo.
Insomma, un Barbaresco essenziale e ben fatto, dalla struttura tannica piuttosto esile che esclude la possibilità di un lungo invecchiamento. Tuttavia è di beva piacevolissima e ha una grande territorialità. Un grande piemontese Docg a un prezzo assolutamente alla portata (di carne o di pesce): 14 € all'enoteca regionale di Barbaresco.
Nicola Taffuri

martedì 16 dicembre 2008

Un rosso buono a 360 gradi

L'altro giorno, domenica, mi sono trascinato giù dal letto alle 11 passate, con in bocca ancora l'amaro delle 3 birre medie che mi ero bevuto qualche ora prima, durante e dopo il concerto pazzesco del gruppo pesarese dei Cheap Wine. In italiano, "vino economico". Del resto, quando ti offrono da bere, pare brutto non ricambiare, no?
Il cerchio alla testa e un vago senso di nausea mi hanno fatto subito pensare "oggi riso in bianco e patate lesse". Mentre scendevo le scale, tuttavia, il caldo e profumato tepore proveniente dalla cucina ha mandato lentamente in fumo, gradino dopo gradino, i miei propositi dietetici. Appurato che in pentola stava rosolando lentamente un enorme polpettone, mentre il forno era già pronto per accogliere due teglie di patate con aglio, rosmarino e aromi vari, ho deciso di prolungare la mia discesa alla realtà di un'altra rampa di scale. Sono andato in cantina a cercare un vino rosso in grado di celebrare degnamente l'amorevole sforzo culinario materno.
Dopo una breve occhiata alla cantinetta e l'amara - anche questa! - constatazione che sarebbe stato difficile averne a sufficienza per tutte le alzate di calici dell'incombente perido festivo, ho deciso di sacrificare per il mio polpettone con patate un vino rosso della tenuta Bosco del Merlo di Annone Veneto, dal 1977 fiore all'occhiello delle Cantine Paladin.

Gusto internazionale a tutto tondo
Il Ruber Capite è un Igt Delle Venezie, frutto di un particolare taglio bordolese di uve cabernet sauvignon, cabernet franc, merlot e malbech. Io ho assaggiato l'annata 2003 e, nonostante i 5 anni e più trascorsi dalla vendemmia, mi è sembrata essere ancora in grande forma.
Colore rosso granato molto scuro e consistente, profumi eleganti per finezza, intensità e complessità. Servito a 16 gradi si dà tempo al vino di svelarci poco alla volta le ricche sfumature aromatiche che lo caratterizzano. Le sensazioni fruttate di prugna e ciliegia matura si integrano bene con le note erbacee del cabernet franc, e vanno ad arricchirsi di pregevoli note speziate di cuoio, pepe verde e, soprattutto, di tabacco dolce.
In bocca rispetta in pieno le ottime aspettative avute al naso, è rotondo e facile da bere, anche in virtù di una componente alcolica aggraziata (13%). Buona la persistenza, davvero eccellente il "tete à tete" con il polpettone di vitello e salsiccia e con le patate al forno. Ah, dimenticavo. Ottimo pure con il pecorino di media stagionatura che ha fatto da dessert, prima del caffé finale. Niente ammazzacaffé, del resto ero a dieta, no?
Prezzo del vino: 18 euro in enoteca. Mica tanto cheap ma decisamente good...
Nicola Taffuri

giovedì 4 dicembre 2008

Ritorni di capra su fumi alcolici

Che nottata. Trascorsa attaccato alla bottiglia dell'acqua minerale, a ripensare a quanto era buono quel fatidico "bis" di superbo gorgonzola di capra servito a chiusura della serata, principale imputato per l'arsura notturna. Mi sono sentito come quel tizio della pubblicità del digestivo Brioschi che si sveglia di soprassalto con un cinghiale - che poi hanno sbagliato xché pare trattasi di facocero - sopra le coperte. Solo che nel mio caso l'animale era un caprone.

A spasso nel girone dei Golosi

La serata era cominciata con degli spuntini di lardo accompagnati egregiamente da una fresca flute di Clarius Rosé Brut della trentina Concilio. E uno.
Un piatto di antipasti super con bresaola d'anatra, salame di cinghiale, speck d'oca, fegato d'oca e altre prelibatezze dal sapore deciso e tendente al dolce ci hanno indirizzati verso lo Chardonnay Yarden, un israeliano di straordinaria struttura e freschezza. E due.
Poi un sorso, giusto uno!, d'acqua e via alla degustazione alla cieca di quattro rossi, cercando di indovinare in quale ordine erano stati serviti un Chianti, un Cabernet, un Aglianico e un Primitivo.
Ok, lo ammetto. A naso ho azzeccato solo il Cabernet, e che Cabernet, visto che era quello de Le Vigne di Zamò, straordinaria azienda del Collio Goriziano. Fortuna che le mie delusioni da aspirante sommelier hanno trovato degna consolazione con un filetto di manzo morbido come il burro, alto due dita e avvolto nello speck. Bagnato con, oltre al Cabernet: un Chianti Classico Riserva di Fattoria di Petrognano, dell'amico Pietro Pellegrini. Un Primitivo anzi "il" Primitivo di Conti Zecca, visto che nella tipologia è difficile trovare di meglio.
Discorso analogo per l'Aglianico del Vulture Il Repertorio di Cantine del Notaio, anch'esso un "must" assoluto nella sua denominazione. E con questi sono sei vini.
E' tempo di dessert. Dolci? Macché. Si va di formaggi, sei assaggi in tutto, tra i quali il più leggero era un caprino come si deve, mica di vacca ma di capra...
Immolato l'ultimo sorso di Chianti con un latteria della Valtellina, mi sono concentrato su quello che Fabio Folonaro, titolare e sommelier del Ristorante Il Tetto Bianzolo, il nostro Virgilio che ci ha condotti in questa passeggiata nel girone dei golosi, ha presentato come un "azzardo".
Un formaggio stagionato nelle vinacce, simile al Castelmagno. E, soprattutto, un rarissimo gorgonzola di capra. Da intingere nel miele o nella mostarda e da provare con un San Martino della Battaglia Passito. Delirio dei sensi che ha meritato un bis.
Dopodiché la sete di curiosità degli scalmanati convitati ha preso il sopravvento sul buonsenso che suggeriva "caffé doppio e tutti a casa". Abbiamo degustato la Tripple, una magnifica birra belga da 7,5°, poi uno Sherry, un Whisky torbato scozzese, ancora bollicine trentine con il Ferrari Perlé, e infine un bicchierino del Greco di Bianco di Vintripodi, un passito da centellinare enumerando una a una le sue mille sfumature.
A mente - quasi - lucida, non sono più tanto convinto che l'arsura notturna sia stata provocata da due pezzettini di delizioso gorgonzola di capra...espiatoria.

N.T.

venerdì 28 novembre 2008

Natale, il vino in libreria

Arriva la neve, dicembre è alle porte e l'apertura domenicale di negozi e centri commerciali annuncia che la corsa ai regali natalizi sta per cominciare.
Più che una corsa una toccata e fuga, visto che, a giudicare da quanto dicono statistiche ed economisti, la recessione inciderà negativamente anche sui tradizionali acquisti di fine anno. Per fortuna basta poco per fare contento un appassionato di vino. A me basta anche un libro. Sul vino, naturalmente...
Mai come in questo periodo dell'anno le librerie sono strapiene di romanzi, racconti, guide e pubblicazioni di ogni tipo ad esso dedicate. Ecco allora qualche consiglio per gli acquisti.

Cominciamo con la voluminosa Duemilavini 2009, redatta dai degustatori dell'Ais, l'Associazione italiana sommelier, e da dieci anni la più titolata tra le guide del settore che vogliono premiare i migliori vini d'Italia.
In tutto 1.800 pagine dove trovano spazio 1.600 aziende vinicole per un totale di 16mila vini recensiti con tanto di voto e indicazione sul loro abbinamento con il cibo. A fare incetta degli ambiti 5 grappoli, 319 in tutta la Penisola, troviamo il Piemonte con i suoi Barolo e Barbaresco, seguito a distanza dalla Toscana, forte di una buona selezione di Chianti e Brunello. Ma all'occhio più esperto non sfuggiranno interessanti new-entry e clamorose bocciature. Bibenda Editore, 32 euro.

Restando in tema di classifiche, ecco una lettura piacevole e istruttiva dedicata alle "Memorie di un assaggiatore di vini" alias Daniele Cernilli, esperto giornalista enogastronomico.
Imperdibile per chi si sta avvicinando ora al mondo del vino, il libro è una simpatica e scorrevole autobiografia scritta per etichette di tutto il mondo, divise per fasce di prezzo, che l'autore co-fondatore del Gambero Rosso ha assaggiato nel corso della sua vita.
Dal retro di copertina: "Come comportarsi se sulla lavagna di un ristorante di New York sono scritti 6 vini italiani, 4 francesi, 2 cileni e 5 californiani? Questa guida al mondo del vino ci spiega che cosa si deve o non si deve fare, i vizi e le virtù, i buoni e i cattivi maestri e quali sono i vini di tutto il mondo da conoscere in ogni loro segreto per sapersi orientare. Una carrellata scherzosa sui "tipi" ideali di assaggiatori e degustatori, che mette in guardia dai tic e permette di riconoscere il falso esperto." Einaudi, 12 euro.

Non ha la quarantennale esperienza di Cernilli ma Andrea Scanzi, classe 1974, con il suo "Elogio dell'invecchiamento", promette di continuare quella tradizione di appassionati scrittori di vino che ha avuto in Luigi Veronelli e Mario Soldati i primi "maestri sul campo".
Il libro è un viaggio alla scoperta dei dieci vini più importanti d'Italia. Barolo, Amarone, Sassicaia, Franciacorta, Trebbiano d'Abruzzo, Picolit, Lambrusco, Aglianico, Brunello, Sfursat. Perché sono così famosi? Quali le loro caratteristiche? Parallelamente, il volume svela cosa si cela dietro le quinte del mondo del vino, in una sorta di bignami del bravo sommelier. Mondadori, 15,50 euro.

Infine, tra i consigli per gli acquisti, non poteva mancare il capolavoro di Mario Soldati, il celebre scrittore, regista e sceneggiatore torinese morto nel 1999 più che novantenne, longevo come il più straordinario dei Barolo. Nel corso della sua vita fuori dal comune realizzò una serie di documentari televisivi dedicati alle regioni vinicole d'Italia, coniando la nuova figura del reporter enogastronomico, sino ad allora sconosciuta. Il racconto di questi viaggi diedero vita nel 1969 al romanzo "Vino al vino", scritto dallo stesso Soldati e fonte inesauribile di spunto per qualsiasi aspirante giornalista enogastronomico del giorno d'oggi. Mondadori, 15,80 euro.

Nicola Taffuri

martedì 25 novembre 2008

Boccadigabbia, marchigiani imperiali

Già Napoleone Bonaparte aveva capito che si trattava di terreni agricoli altamente vocati e, dopo averli espropriati alle congregazioni religiose, li aveva fatti catalogare al n°46 tra i circa 100 Poderi "demaniali" della zona di Civitanova Marche.
Il possedimento passò poi all'Imperatore Napoleone III il quale, intorno al 1850, ne affidò la gestione all’ingegner Paul Hallaire, esperto vitivinicoltore, il quale trasferì in loco il savoir faire enologico d'Oltralpe, oltre a un numero di vitigni ai giorni nostri definiti internazionali, come cabernet, merlot e pinot nero.
In queste stesse terre l'azienda marchigiana Boccadigabbia, di proprietà di Elvidio Alessandri, che si affida all'enologo Fabrizio Ciufoli, prosegue oggi quella solida tradizione vitivinicola, regalandoci ogni anno alcuni dei migliori vini d'Italia. Quindi d'Europa, quindi del mondo, come direbbe il mitico sommelier Guido Invernizzi.
Straordinari il Cabernet Sauvignon "Akronte", il Merlot "Pix" e il Pinot Nero "Il Girone". Eccellenti anche i bianchi come lo Chardonnay "Montalperti" e la Ribona "Le Grane", un autoctono che ho a cuore e che meriterà un post a parte.
In questa occasione voglio invece spendere due parole sul "Saltapicchio", un blend sangiovese e merlot che mi è capitato di assaggiare nei giorni scorsi.

Marche Igt Sangiovese e Merlot "Saltapicchio" 2005
Già dal colore rosso cupo molto denso e consistente si capisce che si è al cospetto di un vino importante.
I profumi sono intensi e complessi. Su tutte spiccano le evidenti sensazioni di more, mirtilli e amarene sotto spirito, seguite da un coro di altri sentori più sfumati che vanno dalla resina di pino, al cuoio, all'humus, fino alle speziature che ricordano la stecca di liquerizia, la china e la cannella.
In bocca è molto caldo e morbido, sapido e con tannino rotondo.
A voler essere pignoli la decisa componente alcolica e una leggera nota "legnosa" impediscono a questo vino di raggiungere l'eleganza dei fuoriclasse. Ciò non toglie che con soltanto 12 euro ci beviamo un grande rosso compagno ideale di carni alla griglia e primi piatti di carne, anche piccanti. Occhio all'annata. Per la 2005 i tempi sono maturi, beviamola entro fine 2009.

Nicola Taffuri

giovedì 20 novembre 2008

Nuova Zelanda, il trionfo del Sauvignon

Quando, nel 1985, venne premiato a Londra come il miglior Sauvignon Blanc del mondo, anche i più eurocentrici furono costretti ad ammettere che, anche in altri continenti, si possono fare grandissimi vini. Migliori persino, ed è questo il caso, degli straordinari Sauvignon francesi della Valle della Loira.
In Nuova Zelanda, specie nella contea di Marlborough nell'isola sud, nascono da tempo i migliori Sauvignon del pianeta. Tra questi quelli dell'azienda Cloudy Bay di Cap Mentelle, rivelazione in quell'ormai lontano 1985, continuano a essere una grandissima certezza per tutti gli appassionati di questa tipologia di vini bianchi tanto profumati che, a definirli semi-aromatici, gli si fa quasi un torto.
Il loro bouquet, infatti, presenta una tale esplosione di eleganti sensazioni erbacee, fruttate e agrumate che, quando questa trova un buon riscontro anche in bocca, eleva questi vini ai vertici dell'enologia mondiale.
E' il caso, come detto, del Sauvignon di Cloudy Bay, che si trova facilmente in enoteca e su internet a prezzi che variano da 20 a 30 euro. Oppure di quello dell'azienda Mount Nelson, altrettanto invitante al naso ma un po' meno generoso in bocca. Ad ogni modo anch'esso un grande vino che costa appena 15 euro. Oltretutto questo Sauvignon è bilingue, visto che nasce in Nuova Zelanda da padre italiano, il Marchese-enologo Lodovico Antinori. Da notare che, entrambe le bottiglie, hanno il tappo a vite, una chiusura che stenta ad affermarsi nel nostro Paese ma che altrove sta ormai soppiantando il sughero, nonostante alcuni studi sostengano che questo nuovo tappo possa rilasciare nel vino sostanze cancerogene.

Nicola Taffuri

martedì 18 novembre 2008

Archiviata la figuraccia, Wine Spectator ci riprova con la "Top 100"

Piaccia o meno, l'annuale classifica dei cento migliori vini del mondo stilata dalla rivista americana "Wine Spectator" è da due decenni la principale artefice delle mode e delle tendenze del gusto enologico planetario.
Proprio l'enorme potere di "far alzare i calici" ha reso oggetto la sedicente Bibbia degli appassionati di vino di svariati tentativi di screditarla o comunque di ridimensionarla.
Il dardo più infuocato è andato clamorosamente a segno in agosto grazie al trappolone architettato dal giornalista inglese Robin Goldstein, scrittore ed esperto di vini, che si è visto premiare dall'autorevole rivista un ristorante inesistente ma con tanto di sito web e lista vini redatta dal diabolico reporter con le ETICHETTE BOCCIATE da Wine Spectator in questi anni.
A questa palese dimostrazione di assoluta mancanza di professionalità si aggiunga il fatto che il giornale si è incassato 250 euro di "Tassa di partecipazione" al concorso, modo assai gentile per definire una marchetta giornalistica in piena regola.

Ad ogni modo anche questa volta il Potere si è dimostrato più forte degli scandali e, evaporato il temporale estivo, ha varato la tanto attesa "Top 100".
Il Barolo Docg 2004 di Pio Cesare è l'unico grande vino italiano entrato nell'Olimpo dei primi dieci. Più ancora che il premio al ristorante inesistente, l'assenza di un Brunello, di un Amarone, di un Taurasi, piuttosto che di un Bolgheri o di un Supertuscan nelle primissime posizioni certifica su carta l'assoluta inaffidabilità delle graduatorie e delle patacche della Bibbia del vino. Che si conferma, anche per il 2008, al primo posto tra i falsi profeti.

Nicola Taffuri


1) Casa Lapostolle, Clos Apalta Colchagua Valley 2005
2) Château Rauzan-Ségla, Margaux 2005
3) Quinta do Crasto, Douro Reserva Old Vines 2005
4) Château Guiraud, Sauternes 2005
5) Domaine du Vieux Télégraphe, Châteauneuf-du-Pape La Crau 2005
6) Pio Cesare, Barolo 2004
7) Château Pontet-Canet, Pauillac 2005
8) Château de Beaucastel, Châteauneuf-du-Pape 2005
9) Mollydooker, Shiraz McLaren Vale Carnival of Love 2007
10) Seghesio, Zinfandel Sonoma County 2007

mercoledì 12 novembre 2008

Tokaji, quanti puttonyos hai?

Niente da dire. Gli ungheresi sono stati più veloci e furbi di noi italiani e hanno provveduto per primi a registrare in sede europea il nome di "Tokaji" per il loro vino più tipico. Con buonapace dei viticoltori italiani che si sono ormai rassegnati a chiamare "tai" o "friulano" quel vitigno conosciuto fino a pochi anni fa come tocai e che da noi viene usato per fare esclusivamente un bianco secco.
E' dunque una mera questione di nomi, perché i due prodotti, quello ungherese e quello italiano, non hanno mai avuto nulla a che spartire l'uno con l'altro.
Il Tokaji ungherese viene fatto con tre uve differenti: furmint, hárslevelű e muscat. Può essere secco (Szàras), dolce (Edes) ma sono senza dubbio le versioni botritizzate (Aszù) quelle di maggior pregio.
Tanto da indurre persino lo Zar di Russia, nei secoli passati, a mandare truppe di cosacchi apposta in Ungheria per scortare il prezioso nettare sino a San Pietroburgo. In particolare lo Zar andava matto per una versione superconcentrata dell'"Essencia", il grado più stucchevole nella classificazione del Tokaji in base agli zuccheri contenuti. Ma tant'è.
Oggi come allora la dolcezza del Tokaji Aszù, fatto miscelando una parte di bianco secco con il mosto di uve appassite per via dell'attacco della botrytis cinerea, la cosiddetta "muffa nobile", si misura in puttonyos (da 2, il più amabile, fino a 8, la dolcissima Essencia).
Questi non sono altro che le tradizionali gerle contenenti ciascuna 25 kg di uva botritizzata. Più puttonyos di uva si aggiungono al vino secco, più il Tokaji Aszù sarà dolce e strutturato, al termine di un invecchiamento nelle botti che può andare dai 2 fino ai 10 anni e più.

Io ho avuto l'estremo piacere di assaggiare il Tokaji 6 Puttonyos 1998 50 cl. dell'azienda Baron Bornemisza, che troviamo anche da Peck al prezzo di 49 euro.
Colore dorato profondo e brillante, profumi molto intensi di rara complessità e assoluta eleganza. Si fa notare per prima la caramella al miele, seguita da squisite sensazioni di datteri, albicocche secche, marmellata di fichi, frutta candita, con una nota minerale di iodio. In bocca è dolce, caldo e morbido ma colpisce per la viva acidità che lo rende fresco e piacevole. E' l'esatto contrario di ciò che si definisce un vino stucchevole. Questo Tokaji non stanca mai - e perdonate la rima non voluta - per merito, oltre che della freschezza, del tenore alcolico di 12 gradi. Pochi, se pensiamo che, per esempio, un Passito di Pantelleria ne ha solitamente 15!
Come abbinamenti un consiglio. Bevetelo da solo, per apprezzare al meglio le mille sfumature di questo grandissimo vino dolce ungherese.

Nicola Taffuri

venerdì 7 novembre 2008

Vini di Lombardia a Milano

Lunedì prossimo, dalle 15 alle 19 presso il Circolo della Stampa in c.so Venezia 16 a Milano, ci sarà la presentazione delle nuova Guida Ais "Viniplus 2009" dedicata esclusivamente ai vini della Lombardia.
La grande attrattiva di questo evento mediatico, più che dalla curiosità di scoprire quali etichette si sono meritate quest'anno le ambite quattro "rose camune", è data dal grande banco d'assaggio dove saranno presenti tutte le etichette selezionate.
Io, per esempio, ho già a tiro vini come lo Sforzato di "Le Strie" o il Valtellina Superiore Valgella "Carteria" della famiglia Fay, piuttosto che il Lugana "Pergola" delle Cantine della Valtenesi, uno dei miei bianchi preferiti.
Ma so già che dovrò rivedere i miei piani, perché non sai mai dove ti portano degustazioni come queste.
Una cosa so per certo. Che, per non vedermi stracciata la mia tessera Ais, il primo calice che leverò al cielo non sarà un ballon con un muscoloso rosso della Valtellina bensì una fresca flute di Franciacorta.
L'ingresso è solo su invito ed è gratuito per i soci Ais.