lunedì 18 maggio 2009

Uno Champagne biologico da paura

Finalmente comincio a capire cosa intendeva dire un mio amico e collega, grande esperto di metodo champenois, quando mi avvertiva di stare alla larga dallo Champagne perché, il giorno in cui avrei aperto le porte alle sue bollicine, non ci sarebbe più stato altro Dio all'infuori di lui.
Sabato sera, ore 23 circa. Di ritorno da una pizza con amici passeggiamo nel minuscolo centro storico di Lecco, muovendoci come una nave rompighiaccio tra la folla delle meglio gioventù brianzola assiepata intorno alle solite 3-4 tipe scosciate, involontarie promotrici dei veleni dei soliti 3-4 bar con tavolini per la strada. Ci facciamo largo tra un tintinnio di Beck's, Ceres, Mojito e Corona e ci infiliamo in uno degli ultimi vicoli dal sapore manzoniano rimasti nella città di Renzo e Lucia, i cui eredi sono ormai diventati tutti piccoli imprenditori di mutande, calzature e happy hour.
Infilata in un'accogliente cantina tra una piazza e un romantico sottopassaggio frequentato quasi solo dai netturbini di prima mattina, l'Osteria del Torchio è un'oasi di genuina vitalità nel p(i)attume omologante che grava sulla cittadina.
Ed è qui che chi ama il vino può trovare di che dissetarsi dopo la passeggiata nel deserto. Cediamo agli interisti felici per il primo scudetto davvero meritato e ordiniamo lo Champagne meno costoso dei tre in lista. Solo 32 euro per il Carte Or Brut della Maison Doquet-Jeanmaire di Vertus, récoltant et manipulant biologico nel sud de la Côte de Blancs.

Raffinatissimo Blanc de Blancs
Perlage finissimo e infinito per questa cuvée tutta chardonnay dal bel colore brillante. Profumi fini ed eleganti di lieviti, agrumi, frutta fresca, fiori d'acacia, latte di mandorle. Gusto fresco e sapido, pieno e succulento, morbido e di ottima struttura, perfetta espressione della sua ricchezza aromatica.
Strepitoso finale di agrumi freschi e mandorle, su una scia sapida molto gradevole che invita a un nuovo assaggio. Il classico vino-rivelazione che può essere un ottimo punto di partenza per andare alla scoperta della Champagne vera, quella senza lustrini e con umanità da vendere. A un prezzo assolutamente accessibile.
N.T.

P.S. La padovana Balan è l'importatore italiano degli Champagne Doquet-Jeanmaire.

martedì 12 maggio 2009

Budvar, la regina delle lager

Noi che ci scandalizziamo per l'esito pro-Ungheria dell'affare Tocai, proviamo a immaginare cosa devono pensare i Cechi, storici produttori di birre chiare, nel vedersi scippare da una multinazionale americana il nome della loro birra più amata, la sublime Budweiser. Che significa "originaria di Budweis", antico nome asburgico di České Budějovice, cittadina fiabesca nel sud della Boemia.
Il problema è che la multinazionale in questione, la Anheuser-Busch di Saint Louis, Missouri, ha colto in contropiede la storica ditta ceca registrando in quasi tutto il mondo, Europa compresa, il marchio Budweiser. Che altri non è che la volgarissima Bud da paninoteca.

La tradizionale birra ceca, invece, è esportata negli Usa con il nome di Czechvar e negli altri paesi, Italia compresa, con quello di Budějovický Budvar.
In questa riproposizione a bassa fermentazione dell'epico duello tra Davide e Golia, l'ha avuta la meglio il gigante americano, che nel 2007 ha acquisito i diritti di importazione negli Usa della birra ceca. Molti temono che quello sia stato il primo passo verso la fine della gloriosa Budějovický Budvar e della storica fabbrica di České Budějovice. Sarebbe un peccato perché tra l'originale ceca e l'imitazione americana corre la stessa differenza che passa tra un ottimo Champagne e un Franciacorta riuscito male. Di conseguenza, al supermercato, salviamo le tradizioni genuine e il buon gusto. Beviamo Budvar e lasciamo la Bud alle formiche.
N.T.

mercoledì 6 maggio 2009

Esame Ais, cronaca della prova orale

Come al solito non bisognerebbe mai dare retta ai racconti degli esaminandi che finiscono sotto torchio per primi. C'è chi, uscito dalla sala di degustazione con annessa camera della tortura, suggerisce tremante l'orrorifico monito "Non andare dal commissario", chi invece consiglia in lacrime di evitare "il bergamasco", secondo esaminatore.
Poi, alla prova dei fatti, capisci che, come sempre, "il diavolo non è mai brutto come lo si dipinge". Certo, non bisogna farlo imbufalire. Su alcune nozioni fondamentali non si può transigere e occorre concentrarsi su quelle. Dove si trova il Pomerol, per esempio, come funziona il "metodo champenois" o, ancora, quali sono i passiti rossi secchi d'Italia (es. Amarone e Sforzato). E pazienza se non ti ricordi tutte le zone vinicole del Cile o tutti i vitigni dell'Argentina, e se la tensione ti fa dimenticare che il petit rouge è un'uva valdostana. Quelle sono domande fatte ad arte per avere subito un'idea del grado di preparazione dell'allievo. E' evidente, infatti, che se uno è in grado di recitare a memoria i gradi Oeschle dei QmP tedeschi presumibilmente saprà anche la differenza tra il Barolo e il Barbaresco e i loro comuni di produzione. Così come ricorderà le diverse sottozone del Chianti e l'uva con cui è fatto il Taurasi. Non sono i dettagli a fare la differenza. Però sono inammissibili errori sui vini più famosi d'Italia e di Francia. E non sapere la differenza tra la birra e un distillato. Oppure abbinare una crostata di frutta con un Franciacorta Extra Brut.
Un consiglio, quindi. Concentrarsi sui macroargomenti e, per ognuno di questi, ricordarsi qualche nozioncina da sciorinare con nonchalance. Ad ogni modo non crediate di essere promossi solo perché avete pagato fior di quattrini i 3 corsi Ais. Ne va della reputazione di tutta l'Associazione.
N.T.

mercoledì 22 aprile 2009

Terzo livello Ais, cronaca dell'esame scritto

Che non sarebbe stata una formalità già si sapeva. E meno male. Dopo tanto dispendio di tempo, fegato e denaro per frequentare i tre livelli dell'Associazione italiana sommelier ci sarei rimasto davvero male se il temuto esamone finale si fosse risolto "a tarallucci e vino". Invece, nel mio caso, è finito a Chianti Classico e Pecorino Senese. Anzi, iniziato, visto che i giochi sono cominciati intorno alle 14,30 proprio dalla valutazione di un bianco (Sauvignon) e dalla scheda di abbinamento vino e cibo. All'altra metà dei corsisti è toccato valutare, invece, un bianco col vitello tonnato.
Piatti freddi, avevamo preventivato. E piatti freddi sono stati.
Dopodiché via con il questionario. Vero falso, domande a risposta multipla. Fino a giocarsi tutto sulle 10 domande aperte, quelle più pesanti ai fini del punteggio finale. Constatazione. Se si arriva all'esame senza lacune particolari le dieci domande sono assolutamente accessibili.

A spanne, a me è toccato:
1) Docg e relativi vitigni di Veneto, Abruzzo e Campania.
2) Procedimento di produzione della birra e differenza tra birre ad alta e bassa fermentazione.
3) Quali sono le 3 voci nella scheda vino che pesano più per coefficiente di punteggio (e qual è il coefficiente).
4) Differenza tra Whisky e Whiskey e metodo di produzione del Whisky scozzese.
5) Fillossera
6) Maturazione fenolica e maturazione tecnologica
7) Vitigni, zona di produzione, tipologie di Porto
8) 3 esempi di abbinamento x concordanza di vini e piatti aromatici
9) risotto, scampi e zucchine: caratteristiche e tre vini da abbinamento
10) California: zone vinicole e relativi vitigni

Qualche nozionismo "spinto" solo nei vero-falso e nelle risposte multiple (es. gradi Babo e acidità dell'Extravergine), ma tanto quelle valgono poco.
Consapevole di aver inevitabilmente scritto qualche minchiata, confido nell'orale. Appuntamento al 5 maggio. Stay tuned.
N.T.

giovedì 16 aprile 2009

Abbuffata didattica con tormentone


E infine arrivarono le Sacher e saltò l'ultimo tappo: quello della 50 cl di Tre Filer 2005 di Ca' dei Frati. Si è concluso con questo abbinamento volutamente stiracchiato per i capelli il cenone didattico pre-esamone finale Ais. Martedì ci aspettano gli scritti e avevamo voglia di stemperare paure, dubbi, curiosità riuniti intorno a una tavola nella splendida magione di un nostro compagno di avventura, con finestre sull'Adda e sul Castello dell'Innominato e guardata a vista da Dick, un enorme pastore alsaziano a pelo lungo. Serata riuscita alla grande. Unico neo: ho scordato la digitale. Pace.
Non mi dilungo a descrivere le cinque bottiglie che hanno preceduto il dolce passito gardesano e che hanno accompagnato magnificamente salmone, halibut, branzino e trota affumicata, culatello, Parma, salame di Felino, lardo di Colonnata e lardo di Arnad, Grana Padano, Pecorino senese, Bitto, Gorgonzola e Roquefort.
Dico solo che, con la scusa che ciascuno dei convitati aveva l'obbligo di coprire le proprie bottiglie con la carta stagnola per dare alla degustazione un tocco di suspence e mistero, un burlone ha avuto la geniale idea di rifilarci una sòla. Ma noi l'abbiamo sbugiardato subito, bocciando incondizionatamente quel rosso acidulo e privo di tannini che l'amico voleva spacciarci x grande vino. Che era, invece, davvero un Vino del Cazzo.
La serata da goliardi edonisti - roba che, se davvero esistesse il contrappasso, nella prossima vita rinasceremmo tutti nel Terzo Mondo - si è conclusa, dicevo, con due splendide Sacher della pasticceria "Arte e Sapori" di Oggiono (Lc), una strepitosa oasi di delizia nel grigiore del gusto brianzolo.
Accompagnate, per l'occasione, con il Tre Filer della lombarda Ca' dei Frati, azienda venerata dai cultori del Lugana. Ed è qui che, a coronare la serata goliardica, è partito puntuale il tormentone, quello del "risottone".
Già, perché questo passito barricato da uve trebbiano di Lugana integrate con chardonnay e sauvignon ha rivelato un'ottima intensità aromatica fruttata di pesca bianca, agrumi canditi, albicocca, floreale di camomilla, "sporcata" però da una nota piuttosto evidente di soffritto di cipolle che ha fatto pensare a tutti al risotto giallo, forse anche per via della persistenza infinita del Sauternes "zafferanoso" che lo aveva preceduto sul tavolo di degustazione. Ad ogni modo il Tre Filler si è subito riscattato in bocca, con un corpo ben distribuito tra morbidezze e durezze, anche se sono state queste ultime a prevalere per via della decisa sapidità e dell'ottima freschezza sospinta anche dal retrogusto finale di pompelmo rosa. Senza dubbio un ottimo passito, anche se siamo stati tutti concordi nel preferire gli altri bianchi secchi della mitica azienda di Sirmione. Oltretutto l'acidità del vino mal si è sposata con quella della marmellata di cui abbondavano - giustamente - le Sacher. Un vino come il Tre Filer avrebbe avuto senza dubbio maggior fortuna con un fegato d'oca o con dei dolci cremosi a pasta sfoglia. Ripasso a parte, la cena è servita ad avere conferma dei timori manifestati all'ultima lezione da Rossella Romani, docente e vicepresidente Ais nazionale: hanno creato dei mostri.
N.T.

lunedì 13 aprile 2009

Vinitaly 2009, le dritte del maestro Guido Invernizzi

Guido Invernizzi, vulcanico sommelier della sezione Ais di Novara, ci guida anche quest'anno alla scoperta di alcuni tesori nascosti tra i padiglioni del Vinitaly.
Vini tanto buoni da bersene, come lui stesso ammetterebbe a telecamere spente, interi tir e autocisterne. Dopo avere avuto la fortuna di seguire alcune sue lezioni durante i corsi Ais sono assolutamente convinto che con un po' di allenamento alla diretta il buon medico d'origine lecchese potrebbe diventare un animale televisivo assolutamente impareggiabile. Ma anche totalmente sprecato in rubriche da fine Tg inutili, impagliate e stucchevoli come i vari "Gusto" e affini.
N.T.

sabato 4 aprile 2009

Tra sorprese e conferme, al Vinitaly si scavalla anche la crisi

Potremmo eleggere a simbolo del Vinitaly 2009 la gigantesca macchina scavallante di fabbricazione olandese che incombe minacciosa al centro del piazzale tra i padiglioni di Puglia e Toscana. Pare uscita direttamente da Terminator per scavallare vigne e crisi. Crisi? Il mondo del vino riunito nell'annuale appuntamento a Verona per la manifestazione enologica più importante del pianeta pare godere di perfetta forma, immune dalle sciagure dell'economia mondiale. Almeno, questa è l'impressione che ho avuto nella mia consueta due giorni, giovedì e venerdì, riservata agli operatori.
Ma si sa, questi eventi sono fatti apposta per, appunto, mettersi in mostra comunque e nonostante tutto. Per regalare sorrisi a profusione, farsi dei gran complimentoni e distribuire generose strette di mano a destra e a manca. E la crisi? Non c'è. Arriverà, forse. L'onda lunga dello Tsunami bancario scoppiato in America deve ancora travolgere il settore vinicolo europeo, specie quello italiano e francese, i due principali esportatori di vino del mondo. Tuttavia l'impressione è che la tanto paventata "onda lunga" arriverà, se arriverà, giusto a bagnare le punte dei piedi ai nostri produttori. Che si fanno forti di una fama costruita in anni e anni di lavoro serio, di selezioni in vigna sempre più esasperate, di sopraffine tecniche di cantina, di investimenti sull'enoturismo che fanno ben sperare.

Detto questo, parliamo di vino. Ho scoperto che l'Asprinio di Aversa di Grotta del Sole fa capottare in veranda da tanto che è buono, così come il loro Gragnano sorrentino, uno stupefacente rosso frizzante degno del miglior Lambrusco padano. Ho avuto la conferma che di Lugana del Garda me ne berrei intere autocisterne, non a caso il vitigno è parente strettissimo del mio amato Verdicchio marchigiano. Così come il Sauvignon del Veneto e il Gewurztraminer altoatesino mi fanno godere come un matto. Non posso dire altrettanto delle mediaticamente pompatissime bollicine Docg di una nota azienda dell'Oltrepo che in sala stampa ha scatenato una sadicissima caccia alla puzza tra me e un paio di colleghi. Alla fine ha vinto il sentore di sudore secco di ascella di vignaiolo con maglia di lana. Quando ci si mette, il pinot nero sa essere ancor più capriccioso e fetente dei giornalisti!
Ho scoperto quanto sono buoni tutti i nebbiolo del Piemonte minore, soprattutto quelli di Boca, Lessona e Carema.
Mi sono illuso di essere al cospetto del mitico Giovanni Cherchi, icona della vitivinicoltura di Gallura e autore di un Vermentino e di un Cagnulari assolutamente impareggiabili. E invece era un suo parente affiancato dai nipoti del titolare, intagliati in lineamenti duri e cortesi alla Gianfranco Zola.
Ho avuto la conferma che l'Aglianico se la gioca alla grande con il Barolo per l'élite del miglior rosso d'Italia, quindi d'Europa, quindi del mondo.
Ho dovuto anche ricredermi sul Chianti Classico, che ho sempre giudicato "roba per americani" e che, invece, può ancora essere un grandissimo grazie a qualche produttore fedele per lignaggio alle tradizioni, come il Conte Sebastiano Capponi, o a enotecnici intelligenti e moderni come Paolo de Marchi di Isole e Olena, di cui ho apprezzato molto di più lo schietto Chianti Classico 2006 che non il blasonatissimo supertuscan Cepparello, annata 2005.
Ma, più che tutto, ho avuto la conferma che, spesso, le soprese migliori e gli aneddoti più interessanti è facile che arrivino proprio dagli stand meno frequentati dai lettori di guide, riviste e annuari vari. Metti il vino di San Colombano, per esempio. Il cosiddetto "vin de Milan", che in realtà è più piacentino che meneghino. Lo fanno una quindicina di aziende su una collina a sud di Lodi, a circa 50 km da Milano, presso il confine con l'Emilia. Indimenticabile, per esempio, il Franco Riccardi dell'azienda Nettare dei Santi, sorta di delizioso ed economico (solo 8 euro!) "Sforzato" o "Amarone", vedete un po' voi, da appassimento di uve merlot e cabernet sauvignon. Davvero un vino della madunina!
Nicola Taffuri