venerdì 7 novembre 2008

Vini di Lombardia a Milano

Lunedì prossimo, dalle 15 alle 19 presso il Circolo della Stampa in c.so Venezia 16 a Milano, ci sarà la presentazione delle nuova Guida Ais "Viniplus 2009" dedicata esclusivamente ai vini della Lombardia.
La grande attrattiva di questo evento mediatico, più che dalla curiosità di scoprire quali etichette si sono meritate quest'anno le ambite quattro "rose camune", è data dal grande banco d'assaggio dove saranno presenti tutte le etichette selezionate.
Io, per esempio, ho già a tiro vini come lo Sforzato di "Le Strie" o il Valtellina Superiore Valgella "Carteria" della famiglia Fay, piuttosto che il Lugana "Pergola" delle Cantine della Valtenesi, uno dei miei bianchi preferiti.
Ma so già che dovrò rivedere i miei piani, perché non sai mai dove ti portano degustazioni come queste.
Una cosa so per certo. Che, per non vedermi stracciata la mia tessera Ais, il primo calice che leverò al cielo non sarà un ballon con un muscoloso rosso della Valtellina bensì una fresca flute di Franciacorta.
L'ingresso è solo su invito ed è gratuito per i soci Ais.

mercoledì 5 novembre 2008

Il segreto del Novello

Dalla mezzanotte di oggi sarà in vendita il vino Novello della vendemmia appena terminata, nel rispetto della consueta data del 6 novembre, fissata dal Ministero delle Politiche Agricole e Forestali (MiPAF).
Tutti ne parlano ma in pochi sanno quale è la caratteristica del "vino nuovo". Alcuni dubitano addirittura che si tratti di vino vero e proprio.
Partiamo innanzitutto dalla seconda questione. Il Novello è un vino a tutti gli effetti che si distingue dagli altri per il particolare procedimento con cui viene fatto.
Il segreto sta nella "macerazione carbonica", un metodo di vinificazione rapida adottato per la prima volta intorno agli anni '40 del secolo scorso nella regione francese di Beaujolais, dove tuttora si produce il Novello per antonomasia, ovvero il Beaujolais Nouveau.

Una tecnica particolare
I grappoli interi, completi di raspi, vengono messi in vasche sature di anidride carbonica, dove riposano per un periodo compreso tra i 5 e i 20 giorni a una temperatura di circa 30°C. L'ambiente privo di ossigeno e l'impiego di anidride solforosa impediscono l'ossidazione dell'uva e costringono l'acino a una sorta di automacerazione senza rottura della buccia, dove sono concentrate in massima parte le sostanze colorate e aromatiche. Queste migrano verso la polpa dell'acino riempiendolo degli aromi fruttati tipici dell'uva rossa fresca e che ricordano la fragola e il lampone.
Alla fine della macerazione carbonica gli zuccheri residui sono "dati in pasto" a lieviti selezionati che completano la fermentazione alcolica.
Dopo appena un mese dalla vendemmia abbiamo così un vino rosso secco pronto da bere. Mica male, se pensiamo che un normale bianco fatto con la vinificazione tradizionale difficilmente è pronto prima del Vinitaly, che cade ai primi di aprile. Per non parlare dei rossi! Certo, la fretta ha uno scotto che va pagato in termini di minore struttura, corpo e complessità, perché per fare un grande vino ci vuole più tempo.
Il Novello va apprezzato per quello che è: un vino leggero, poco colorato e quasi per nulla tannico, molto fresco e dai marcati aromi di frutti di bosco e violette. Un vino da bere assolutamente, dicono, entro l'anno. Per apprezzarlo meglio, il mio consiglio è di stappare l'ultima bottiglia prima della fine dell'inverno.

Nicola Taffuri

martedì 4 novembre 2008

Quel "leggero" sentore animale

Alcuni noti vitigni a bacca rossa trasmettono al vino una componente aromatica che in gergo tecnico i sommeliers definiscono "animale" e che il più delle volte ricorda il cuoio, il pellame.
Ora, siccome il mondo animale è piuttosto vario e va dal cane al cavallo fino alla giraffa e al rinoceronte, cerchiamo di capire meglio cosa si intende per "sentore animale". Proprio ieri mi è capitato di assaggiare un Montepulciano d'Abruzzo che, a questo proposito, potremmo definire didattico, esemplare.
La nota selvatica è infatti una caratteristica del montepulciano, ritenuto da molti la più grande uva rossa italiana alla pari di nebbiolo e aglianico. L'importante è che questa tipicità non vada però a sovrastare gli altri deliziosi aromi fruttati e speziati del vino.
Il vino in questione, del quale mi limiterò a dire l'annata, la 2005, e il prezzo di 22 euro in enoteca, presentava invece una tale collezione di animali da fare invidia al biblico Noé.
A serrare gli occhi si ritornava bambini, quando ci portavano allo zoo tra cacche di cavallo e sterco di ippopotamo. La cosa era talmente evidente che il mio compagno di degustazione mi ha sussurrato in un orecchio "mi ricorda l'odore di Leo quando gli faccio il bagno". Inutile precisare che Leo non è il suo bimbo bensì un affettuoso pastore maremmano che trascorre le giornate a scorrazzare dentro e fuori dalle stalle del maneggio del padrone.
Il titolare del ristorante, invece, pareva non avere notato questa fisicità e seguitava a decantare i profumi fruttati di questo grande vino rosso abruzzese.
Meno male che, con estremo garbo, un'amica ha avuto il coraggio di fargli notare che c'era anche una leggerissima nota animale non molto elegante.
Appunto che è stato prontamente liquidato con un "Il Montepulciano deve essere così". Falso.

Il Montepulciano d'Abruzzo Doc, specie nella sua versione Colline Teramane Docg, può raggiungere davvero i vertici dell'eccellenza enologica mondiale, senza per questo rinunciare ad alcune delle sue tipicità come quella caratteristica nota animale. Provare, per credere, l'Inferi o il Dante dell'azienda Marramiero, il Villa Gemma e il Marina Cvetic del compianto Gianni Masciarelli, per non parlare del Montepulciano di Valentini.

Nicola Taffuri

lunedì 3 novembre 2008

Tutto pronto per il Novello 2008

Novello ai blocchi di partenza. Dalla mezzanotte e un minuto di mercoledì 5 novembre sarà possibile cominciare a stappare le 17 milioni di bottiglie di "vino nuovo" prodotte in Italia con la vendemmia 2008, quella che si è appena conclusa.
Questa ricorrenza che in Francia chiamano "déblocage" darà il via alla mescita e alla vendita del Novello in tutta la Penisola, con ben due settimane di anticipo rispetto a quanto avviene Oltralpe, dove il vino nuovo di Beaujolais entra in commercio ogni anno a partire dal 3° giovedì di novembre, che quest'anno cade il giorno 20.

A differenza di quanto avviene in Francia, dove il Novello si fa nella zona di Beaujolais, a est del Massiccio Centrale, con le uve del vitigno gamay, nel nostro Paese si produce ovunque, usando peraltro le uve più disparate, dalle internazionali merlot, syrah, cabernet a quelle autoctone. E così abbiamo un Novello da uve barbera in Lombardia, ciliegiolo e sangiovese in Toscana, teroldego in Trentino, aglianico e piedirosso in Campania, nero d'Avola in Sicilia e via dicendo.
Veneto e Toscana sono le due regioni che ne producono di più, mentre tra i più noti produttori troviamo Cavit, Banfi, Antinori, Sella & Mosca e Ruffino.

Il vino Novello costa in media tra i 3 e gli 8 euro a bottiglia e deve essere consumato entro la fine dell'inverno, affinché mantenga inalterate le proprie caratteristiche. Ideale con le castagne e i salumi, le verdure in pinzimonio e i formaggi piccanti a pasta molle, possiamo anche andare oltre e provarlo con le zuppe un po' piccanti, i pesci arrosto e al cartoccio, il baccalà in umido e fritto, le lumache e l'anguilla. Il segreto è riuscire a sfruttare i suoi aromi di frutta fresca e la sua buona acidità per dare valore alle nostre pietanze.

Una raccomandazione...
Per quanto buono possa essere, un vino Novello avrà sempre un gusto più leggero e meno impegnativo di qualsiasi altro vino.
Di conseguenza, se abbiamo intenzione di portare in tavola altri vini, siano essi bianchi o rossi, serviamo il Novello per primo se non vogliamo che dal confronto ne esca con le ossa rotte!

Curiosità: gamay d'Italia
Il gamay è un'uva a bacca rossa che in Francia è usata per fare il Beaujolais Nouveau. Tuttavia la ritroviamo anche in alcune zone dell'Italia centrale, dove dà origine a vini rossi di maggiore struttura e importanza. Si è adattato alla grande soprattutto al clima mite del Trasimeno, dove viene vinificato anche in purezza dando vini che si sposano alla meraviglia con la cucina locale a base di pesce di lago.

Nicola Taffuri

venerdì 31 ottobre 2008

Gli incredibili profumi del Greco di Bianco

Nel delizioso mondo dei vini dolci il Greco di Bianco Doc non è secondo a nessuno. Lo producono un pugno di aziende calabresi nel territorio dei comuni di Bianco e Casignana, in provincia di Reggio Calabria, all'incirca là dove batte la punta dello stivale.
Per fare questo vino si usano le uve di greco bianco, un vitigno autoctono che fu uno dei primi ad essere portato in Italia dai coloni Greci che proprio su queste coste stabilirono i loro primi approdi, intorno al VII sec. a.C.
La sua caratteristica è che, mentre in altre zone della regione cresce fitto e compatto, in questa terra calda e arida per buona parte dell'anno dà origine a grappoli "spargoli", ovvero con i chicchi radi e ben distanziati gli uni dagli altri.
Si tratta di una sorta di auto-selezione che la pianta fa, decidendo di destinare le sue scarse risorse per la produzione di pochi acini.

A metà settembre è tempo di vendemmia, le uve vengono raccolte e messe ad appassire al sole su dei graticci costantemente asciugati dalle brezze del Mediterraneo.
Dopo una decina di giorni vengono portate in cantina e spremute, e il vino comincia il suo lento "processo di educazione", tra botticelle di legno e bottiglia, che durerà per circa 14 mesi.

LA DEGUSTAZIONE
Prendiamo, per esempio, il Greco di Bianco Doc 2003 dell'azienda Vintripodi. 14,5% di alcol per un prezzo medio di 35 euro in enoteca.
Dire che è brillante non rende l'idea, tanto questo vino luccica delle piccole stelle d'oro antico che si accendono nel cuore del suo caratteristico colore ambrato.
I profumi sono assolutamente stupefacenti, magnificamente ridondanti e di inaudita ricchezza e finezza. Alla mente scorrono le immagini delle albicocche secche, della mela cotogna, della marmellata di agrumi, dell'arancia candita. Ma non è finita qui. Salgono altri aromi di torrone, zenzero, cannella, nutella. Per finire con la salvia e il miele di castagno. Ma sarà davvero finita qui?
Vi assicuro, non sto delirando.
Tanta complessità ritorna in bocca ma sempre per via retroolfattiva. Al gusto è dominante la sensazione di albicocca secca inserita in una struttura di assoluta morbidezza e di dolcezza mai stucchevole, per via di una bella acidità che rende il vino tanto fresco da poterlo definire, più che dolce a tutti gli effetti, amabile.
Terminata la degustazione, il suo sapore delizioso ha accompagnato me e la mia compagna di libagioni fin dal fornaio dove ci siamo trangugiati un cornetto caldo con la marmellata di mele e un altro con la pasta di mandorle. Ché il sol pensiero mi fa venire ancora l'acquolina in bocca.

Nicola Taffuri

giovedì 30 ottobre 2008

Non facciamoci "infinocchiare"

Siamo talmente abituati ad usarli che non ci chiediamo nemmeno da dove hanno origine. Eppure, se ci pensiamo bene, tanti termini che danno colore al nostro linguaggio quotidiano sono veramente curiosi. Molti derivano da aneddoti e storielle risalenti ai secoli passati. Visto che qui parliamo di vino prendiamo, per esempio, la parola "infinocchiare".

Pare che essa abbia origini tardo-medioevali. I cittadini romani più facoltosi andavano spesso a fare il pieno di prodotti agroalimentari sui colli attorno alla città eterna. Si trattava, né più né meno, di quelle "gite fuori porta" di cui i telegiornali pasquali e ferragostani si riempiono la bocca ai giorni nostri. Solo che, all'epoca, solo i ricchi potevano concedersi queste scampagnate. E, come accade oggi, spesso si prendevano delle vere e proprie "sole", per dirla in romanesco, dal contadino di turno.
Se oggi il Frascati, specie nella sua versione Superiore, decisamente più strutturata e importante di quella "base", è uno dei vini bianchi più apprezzati d'Italia, nel Medioevo doveva essere qualcosa di poco più che bevibile, per i canoni attuali.
E così gli osti e i contadini dei Castelli Romani, prima di servire il loro vino poverello e squilibrato ai nobili di città, usavano porger loro un assaggio di finocchio selvatico. Questo aveva un duplice effetto: anestetizzava leggermente le papille gustative e lasciava in bocca un'aromaticità piacevole che perdurava anche all'assaggio del vino. Che appariva così meno difettoso e più saporito.
Vallo a spiegare poi, al ricco cittadino, come mai una volta tornato nel suo palazzo con il suo carico di vino dei Castelli, non provasse più le stesse piacevoli sensazioni gusto-olfattive avute qualche giorno prima.
Facile pensare che, come diciamo anche oggi, attribuissero la colpa all'"aria diversa" e al fattore emozionale suscitato dal dolce paesaggio agreste che rende tutto più buono. Invece erano stati "infinocchiati".

Tornando ai giorni nostri, se ci pensiamo bene, al bancone del bar, durante l'"happy hour", troviamo spesso vaschette con sedani e pezzetti di finocchio...
Quando ci capita, il nostro calice di bianco, proviamolo prima a bocca pulita, e poi sorseggiamolo dopo aver sgranocchiato un pezzo di finocchio...se sentiremo una grossa differenza tra i due assaggi ci saremo fatti, anche noi, "infinocchiare"!

Da provare
Il Frascati Doc Superiore "Antico Cenacolo" di Cantina Cerquetta di Monte Porzio Catone è un ottimo esempio di "bianco dei Castelli" senza difetti, assolutamente gradevole e di spiccata personalità.

Nicola Taffuri

mercoledì 27 agosto 2008

Storia di un giovane casaro

Si chiama Andrea, ha 25 anni ed è originario di Morbegno, nella bassa Valtellina. Oggigiorno diremmo che si occupa della "valorizzazione del territorio e dei suoi prodotti". Qualche tempo fa avremmo semplicemente detto che fa un po' di tutto, dal contadino, al pastore, al vaccaro, al casaro. L'ho conosciuto domenica scorsa nell'alta Val Varrone, un piccolo paradiso terrestre ricchissimo di sorgenti d'acqua, sospeso tra Valtellina e Valsassina.
Mentre mi sto beatamente ingozzando di pizzoccheri seduto su una panca in pieno sole, noto qualcosa che si muove in lontananza, sul versante destro di questa rigogliosa valle a ridosso del Pizzo dei Tre Signori.
Il potente zoom della mia Lumix mi apre un curioso scenario su un tizio che, in sella a una moto da cross, tenta di radunare un gregge di capre.

Pagato il conto al rifugio, mi butto lo zaino in spalla e vado a conoscere da vicino quello strano personaggio che gestisce quella che scopro essere la "Casera Vecchia" di Varrone.
Sul bordo del lavatoio giacciono ad asciugare alcuni telai di legno usati per dare forma al Grasso d'Alpe, strettissimo parente del Bitto, l'illustre formaggio che si fa nella confinante Val Gerola. Appoggiata al muro,una moto da trial impolverata.
"C'è nessuno? Si può avere del formaggio?"
Dalla semioscurità esce un ragazzotto rubizzo e ben pasciuto, con tanto di stivaloni di gomma e grembiule verde militare.
"Dipende quanto..."
"Che formaggio hai?"
"Bitto"
"Ah puoi fare il Bitto anche in questa valle?" lo stuzzico
"No, cioè, è come il Bitto ma non lo posso marchiare"
Dettagli da fanatici di disciplinari di produzione. Del resto la legge parla chiaro. In Val Varrone il Bitto non può chiamarsi Bitto bensì Grasso d'Alpe, nonostante i due siano formaggi identici. Entrambi sono fatti per l'80% di latte intero di vacca e per il 20% di latte di capra. Niente mangimi, gli animali si nutrono esclusivamente di erbe e fieno della valle, e vengono munti due volte al giorno, mattina e sera.

"E'il Grasso d'Alpe, giusto?"
"Giusto. Quanto ne vuoi?"
"Dammene un chilo,va"

E così scopro che la sua famiglia si dedica da tempo all'agricoltura e alla pastorizia in Valtellina, e che lui all'inizio dell'estate porta le vacche e le capre attraverso la Val Gerola fino a scollinare e passare ai pascoli alti della Val Varrone. Ogni estate produce circa 300 forme di Grasso d'Alpe che vende ai negozianti dei Tre Signori che danno il nome alla punta rocciosa che domina la valle: le provincie di Sondrio, Bergamo e Lecco.
Il tono calmo e i gesti misurati mi danno l'immagine di un ragazzo immune dalla solitudine e dalle frenesie della pianura. Del resto lassù, a 1800 metri e più, è facile essere al di sopra di tante cose che ci intossicano la vita di tutti i giorni.
Alla fine azzardo una battuta "Anche a me piacerebbe avere una mucca in giardino"
Lui non coglie la vena ironica e chiosa con un "Eeehhh, sarebbe bello", dal sapore malinconico, e i suoi pensieri vanno alla fine della bella stagione, quando dovrà lasciare quel paradiso e riportare le sue bestie nella stalla, in attesa di una nuova scampagnata sui verdi pascoli della Val Varrone.

Nicola Taffuri