domenica 20 febbraio 2011

Un quadretto con vista sulla Valtellina

*"A Velazquez" (1985), del pittore bellanese Giancarlo Vitali.
Ormai da qualche tempo sta diventando un appuntamento fisso la cena di inizio anno con due vecchi compagni di liceo e università. Il primo vive da anni a Pechino e torna solo per le feste natalizie. Il secondo vive a Londra dove sta frequentando un master in giornalismo. Originario di Bellano, non guida. Di conseguenza, la scelta della tavola della tradizionale reunion ruota per comodità sempre intorno al paesino lacustre dello scrittore Andrea Vitali.
Ed è così che, per il secondo anno consecutivo, siamo andati a cena all'Orrido, albergo ristorante amato dallo stesso autore di Una finestra vista lago e altri best-sellers ambientati nel Ventennio fascista.
La cucina del ristorante rispecchia perfettamente l'anima metà lecchese metà trentina della famiglia che lo gestisce da tanti anni.
Canederli in brodo o burro e salvia, raviolini di grano saraceno al Taleggio, brasati di cervo con polenta e pesce di lago in carpione. E via dicendo. Non ci si ammazza in quantità ma si mangia bene e ci si alza da tavola soddisfatti per andare al banco per un giro di grappa e a pagare un conto che non supera mai i 32 euro, bottiglia di vino compresa. Stavolta è toccato al Quadrio di Nino Negri.

Valtellina Superiore Docg 'Quadrio' 2007, Nino Negri
Prodotto con uve chiavennasca ammorbidite con un 10% di merlot, provenienti da tutte le 5 sottozone della Valtellina, questo rosso prende il nome dal quattrocentesco Castello Quadrio di Chiuro, fatto erigere da Filippo Visconti nel 1432 e appartenuto al governatore della Valtellina Stefano Quadrio nel XV secolo, per poi essere acquistato da Nino Negri nel 1897. Da allora il castello è sede dell'azienda, dal 1986 passata sotto il GIV (Gruppo Italiano Vini).
Il vino ha colore rosso granato limpido e brillante. Al naso i profumi sono intensi, complessi e fini, di mirtilli, ciliege, more e fiori rossi appassiti, che si aprono abbracciando anche una nota erbacea ed eterea.
In bocca ha una struttura di buona freschezza e sapidità, e il tannino regala la piacevole sensazione di secchezza che appiccica sulla lingua le note di prugna, liquirizia e tabacco dolce, sparecchiando il palato dai sapori forti dei raviolini al Taleggio e del brasato di cervo con polenta. Un buon vino davvero, di personalità e al contempo beverino, a un prezzo che al ristorante si aggira intorno ai 16 euro.

domenica 30 gennaio 2011

Un cannonau sella e cimice

Stamattina sono sceso in cantina per pescare nella 'riserva discount' di mio padre un rosso adatto per accompagnare la tasca di vitello ripiena preparata da mia madre, e la polenta che mi accingevo a rimestare. Fatta quasi interamente con farina di grano saraceno e una piccola parte di farina di mais 'fioretto'.
Tra le varie bottiglie ho notato l'etichetta della linea da supermarket di Fontanafredda, azienda langarola comparsa proprio nel post precedente. Langhe Doc Nebbiolo 2006. Proviamolo. Lo porto in cucina e lo lascio un'ora ad acclimatarsi mentre, tra una rimestata col tarel e l'altra, continuo la lettura de La solitudine dei numeri primi, bestseller scritto, guarda caso, proprio da un piemontese.
Stappo il vino, annuso il tappo e... tombola. Rovinato. Muffito. Il sughero secco e compattissimo, il vino inacidito. Sarà un caso ma l'assaggio sorprendente del Dolcetto La Lepre rimane una lieta sorpresa per un'azienda che, almeno nella linea da supermercato, continua a lasciarmi scettico. Un numero primo anch'esso, insomma, quel Dolcetto fortunato. Ridiscendo negli inferi dei vini da discount, lascio il Piemonte e cerco consolazione in Sardegna.

Sardegna Doc Cannonau 2007 Sella e Mosca

Stavolta il tappo non ha difetti di conservazione. Il vino ha colore rosso brillante con sfumature granate. Al naso è assai poco invitante. Il sottile strato di frutti rossi e acidelli come amarene e ribes è soffocato da un prepotente sentore selvatico. E' quello che gli esperti chiamano cuoio ma che qui è più complesso e comprende un po' tutto il mondo dei cavalli, dal sudore alla sella bagnata fino allo stallatico.
A questi si aggiunge un evidente sentore sapido come quello che si ha quando si apre un barattolo con il sale nella nostra casa al mare rimasta chiusa per un anno. E, infine, delle sgraziate note balsamiche che dovrebbero richiamare la macchia mediterranea e quindi il mirto, il pino d'aleppo o il corbezzolo e che invece ricordano tanto l'olezzo delle cimici schiacciate.
In bocca ha una buona freschezza ma è 'polveroso', caldo e mediamente tannico. E' meno sgraziato che al naso, anche se sono sempre evidenti le note selvatiche e 'verdi', con l'aggiunta di un pizzico di pepe verde che chiude l'assaggio.
Insomma, indipendentemente da un prezzo che sarà certamente molto basso, diciamo che l'azienda sarda più famosa sul continente con questo Cannonau ha toppato. C'è decisamente di meglio. Sia nella sua vastissima gamma per tutti i portafogli, sia in quella di altre aziende, pure 'da supermercato'. Perché se è questa la tanto giustamente decantata 'tipicità' dei vitigni autoctoni italiani come, appunto, il cannonau, no grazie. Tutta la vita un merlot del Veneto.

domenica 23 gennaio 2011

Una Lepre da acchiappare al volo

La settimana scorsa ero a cena a Perugia in una deliziosa enoteca in via Cavour, gestita da un simpatico e brillante sommelier. A lasciarsi trasportare dalle specialità nel menu ci sarebbe stato da salire in carrozza per un viaggio dall'antipasto al dolce andata e ritorno per poi ricominciare daccapo salendo di una tonalità. Ma la cassa di risonanza del nostro stomaco non sarebbe stata in grado di reggere una simile cavalcata del gusto, e così abbiamo deciso di concentrarci su un piatto unico.
La mia amica una bella tagliata di entrecote con ratatouille di verdure. Io strangozzi con pomodori, guanciale di Norcia e scaglie di grana 'intruso' di Todi.
E il vino? La lista ne suggeriva di diversi per regione ma il mio 'nordismo', almeno per quanto riguarda il mio 'schieramento enologico' totalmente difforme da quello politico, mi ha portato a dare un'occhiata tra Piemonte, Trentino e Friuli.
"Proviamo il Dolcetto d'Alba di Prunotto", ho detto al sommelier.
Questi è tornato tenendo tra le mani una bottiglia con una simpatica etichetta con scritto 'La Lepre' a caratteri pelosi.
"Prunotto l'ho finito. Se vuoi ho questo Dolcetto di Fontanafredda. E' molto buono".
Fontanafredda. Un nome che troppo spesso associo agli scaffali dei supermercati più comuni, nemmeno a quelli che negli ultimi anni si sono attrezzati allestendo veri e propri reparti-enoteche. E poi, insomma, non amo particolarmente andare a pescare nelle cantine di aziende che fanno, nello specifico, 6milioni500mila bottiglie l'anno. Un caso più unico che raro, nel microframmentato panorama vitivinicolo del Piemonte di qualità.
Il tizio però mi dice di fidarmi, perché il Dolcetto La Lepre fa parte della nuova linea per la ristorazione di Fontanafredda, di assaggiarlo che al limite lo cambia. Ci mancherebbe. Lungi da me rompere i coglioni per motivi diversi dai classici evidenti difetti di conservazione.
E quel vino è perfetto. Già a una 'nasata rubata' offre un "intrigante ventaglio di frutta rossa, con una nota legnosa molto delicata, e un...".
"Ssssh. Silenzio - mi interrompe lei - Arrivano i piatti".

Diano d'Alba Doc Dolcetto 'La Lepre' 2008

...dicevamo, il vino veste il calice di un colore rosso rubino scuro con riflessi violacei. I profumi sono molto accattivanti e rivelano la natura del vitigno e un processo di lavorazione in cui l'affinamento nel legno ha avuto la sua parte senza tuttavia andare a coprire gli aromi primari dell'uva dolcetto. La sensazione iniziale è analoga a quella che si ha quando si apre un barattolo di confettura ai mirtilli. E poi more e ciliege, in maniera più sfumata, arricchite da un alito speziato di pepe nero. Sensazioni che tornano in bocca su un tessuto di morbido tannino e un nerbo di freschezza che invita alla beva e che termina con un piacevole finale di mandorle. Un vino perfetto con i primi piatti dal sapore deciso e speziato come i miei strangozzi veramente orgasmici, ed egregio anche per esaltare la succulenza di una tagliata. A un prezzo - 17 euro al ristorante, 12 in enoteca - piuttosto interessante.
Un Dolcetto senza scherzetto, insomma. Soprattutto se gustato in compagnia della lepre più deliziosa che ci sia...

domenica 28 novembre 2010

A tu per tu con un mito

Non capita spesso di trovarsi faccia a faccia con un enologo di fama internazionale. E Régis Camus è senza dubbio uno dei più grandi winemaker della storia dello Champagne. In forza dal 1994 alla storica maison Piper Heidsieck (1785), dal 2002 ha ereditato dal suo maestro Daniel Thibault il ruolo di chef de cave nella prestigiosa casa spumantistica di Reims. Da allora è stato premiato per ben cinque volte come "Winemaker dell’anno" dall’UK International Wine Challenge (2004, 2007, 2008, 2009, 2010). Sempre nel 2010 la competizione internazionale britannica ha eletto il suo Charles Heidsieck Brut Vintage 2000 come il migliore Champagne dell’anno. Nonostante i trionfi e un potere pressocché assoluto sull'impronta da dare ai 9milioni di bottiglie che escono ogni anno dai due marchi Piper Heidsieck (8 milioni) e Charles Heidsieck (1 milione) che egli stesso ha voluto unificare e vinificare nel medesimo stabilimento, Régis mantiene sempre quell'espressione sardonica da mente illuminata e relativista e snocciola aneddoti divertenti come a dire: "Suvvia, stiamo sempre parlando di bollicine". Già, ma che bollicine! Qui siamo a livelli di qualità eccelsi. Questo è lo Champagne. Tutto il resto, fuori dalla denominazione, non è altro che "sparkling wine", come tiene a sottolineare la responsabile marcketing dell'azienda, a proposito delle neonate bollicine inglesi.
Per lo Champagne ci vuole quella terra lì, 150 km a est di Parigi, fredda e umida fuori ma scaldata nel ventre da uno strato di gesso spesso parecchie decine di metri, dove i romani scavarono miniere a forma di piramidi (le crayères, le 'gessaie') e dove, a partire dal 1600, vennero create le prime cantine di invecchiamento del neonato 'vino rifermentato'.
Lì sotto, infatti, la temperatura è sempre intorno agli 11°C, la luce filtra fioca dalle poche aperture nel terreno, 20 metri più in alto, e il gesso morbido attutisce la pur minima vibrazione. E' lì che, prima su cataste e poi sulle pupitres in attesa della sboccatura, riposano "sur liés", sui lieviti, tutte le bottiglie della maison. Minimo 24 mesi il Brut di Piper, 36 quello di Charles. Per arrivare ai minimo 5 e 8 anni per i rispettivi Millesimati. Come quello, per l'appunto, fresco vincitore a Londra.
E poi ci vogliono quel tris di vitigni chardonnay, pinot nero e pinot meunier che solo a Reims e dintorni trovano le condizioni ideali per dare vita ai vins clairs, ovvero alle basi, i vini fermi che, assemblati e addizionati di lieviti e zuccheri, rendono possibile il miracolo del metodo champenois.
Ed è proprio qui che, da settembre a giugno, interviene lo chef de cave. Assaggiando, testando, confrontando le caratteristiche dei vini fermi prodotti dalla vinificazione separata dei tre vitigni, provenienti dagli oltre 200 cru da cui si rifornisce l'azienda. Solo un 10% dei vigneti, infatti, è di proprietà della maison; le altre uve vengono acquistate da contadini 'récoltants'. Ogni giorno Régis e la sua ristretta squadra di collaboratori assaggiano e confrontano i vari campioni di vino. E in un gioco a esclusione danno le pagelle e decidono come comporre le varie cuvée. Quali vini e di quali cru destinare a Charles e quali a Piper. Quali quelli che possono dare vita a dei millesimi memorabili e quali quelli tanto eccelsi da andare a rimpinguare le riserve destinate a correggere negli anni a seguire le annate meno fortunate. Come quella scipita e annacquata del 2001, oppure quella torrida e surmatura del 2003.
Altro compito dello chef de cave è proprio quello di mantenere il prodotto sempre ad altissimi livelli di qualità, anno dopo anno, e di renderlo sempre riconoscibile.
Il tutto, come dice Régis, "vestendo l'austero pinot nero con gli aromi floreali e fruttati dello chardonnay e con il colore e l'allegria del pinot meunier".
Per un vino unico e inimitabile. Perché, è lui a ricordarcelo, "sempre di vino stiamo parlando".

giovedì 30 settembre 2010

Un Montecompatri da "Promised Land"

In questi giorni stavo liberando il cell da una marea di sms che mi avevano intasato la memoria della Sim e mi sono ritrovato questo messaggio salvato nella cartella bozze.
"Virtù Romane, Tenuta Le Quinte, Montecompatri Superiore 2008".
E mi sono ricordato.
Della lunga attesa fuori dall'Olimpico, della voce di Bruce che rimbalzava contro la Monte Monte Mario con un'irriverente eco, della caccia alla band, di Trastevere e di quella bandana in vertina.

A CENA CON LITTLE STEVEN
Domenica 19 luglio 2009, stadio Olimpico di Roma. Prima delle tre tappe italiane del nuovo tour di Bruce Springsteen con la E Street Band, a un solo anno di distanza dal mostruoso Magic Tour. Inizio previsto ore 22, per colpa della concomitanza dei mondiali di nuoto, in scena nell'adiacente villaggio olimpico. Concerto bello ma non epico, per via della lunga snervante attesa e di un'acustica pessima. Ma il Boss come al solito non si risparmia e, tra cavalli di battaglia vecchi e nuovi e ripescaggi a sorpresa, manda in delirio lo stadio.
Tant'è che, sulla scia dell'esaltazione della sera prima, il lunedì lo passiamo a dare la caccia alla band, asserragliata nell'Hotel De Russie, a due passi da piazza del Popolo.
Ed è così che, tra una fugace stretta di mano a Charlie Giordano e una pacca sulla spalla a Max Weimberg, un autista ci fa la soffiata: Bruce e Little Steven andranno a cena in un noto ristorante a Trastevere, dalle parti di Ponte Cestio.
Risultato: dopo aver battuto in lungo e in largo le numerose trattorie e pizzerie del quartiere tiberino, mia sorella ci dà la dritta che aspettavamo:
"Da quella vertina si vede un tipo con la bandana...".
Eccolo. Little Steven. E...Bruce?
L'insegna è quella dell'Osteria La Gensola.
Entriamo e veniamo accompagnati dal cameriere nella saletta interna, osservando di soppiatto la tavolata del chitarrista newyorkese alla ricerca di un suo sguardo e, soprattutto, del suo Boss. Nulla. Little è da solo, con amici. Però, che figata...a cena nello stesso ristorante di Little Steven!

Volevo il Frascati ma...viva il Montecompatri!
La cena è stata ottima, il locale delizioso e il personale molto cordiale.
Altri dettagli, via di uno stupendo spaghetto cacio e pepe e di un'amatriciana da urlo, non li ricordo, tale era lo stato di trance al pensiero che verosimilmente, di lì a poco, avrei conosciuto una leggenda del rock.
Però il nome del vino me lo sono segnato sul telefonino.
Avevo chiesto un Frascati Superiore ma il sommelier, figlio del titolare, è riuscito a rifilarmi un'altra etichetta con la sfacciata spontaneità che solo i romani e i napoletani riescono ad avere.
Però mi è andata bene, perché ho scoperto un grande vino bianco di una denominazione che non avevo ancora assaggiato: Montecompatri Doc Superiore "le Virtù Romane" 2008, Tenuta Le Quinte.
Accattivante blend di tutte le uve bianche tipiche del Lazio, dalla malvasia puntinata, al trebbiano, bellone e bonvino, si presenta al naso con fragranti profumi di pesca, caprifoglio, erba fresca e mandorle, sospinti da un delicato alito etereo molto seducente. Sensazioni che ritornano in bocca inserite in un corpo di grande freschezza e buona struttura, per un vino che invoglia fino all'ultimo sorso e si congeda con un appetitoso retrogusto fruttato e ammandorlato. In enoteca si trova a circa 10 euro, per una gradazione alcolica di 13,5%.
E Little Steven? Beh, addolcito dalla buona cena e sedotto dal vino romano, si è concesso per sigaretta e foto di rito, con tanto di battuta ironica quando gli abbiamo detto che l'indomani ci saremmo rivisti a Torino e, due giorni dopo ancora, a Udine.
"You're crazy, my friends!".

giovedì 23 settembre 2010

A spasso per la Bussia

Ventuno ettari in Monforte d'Alba, con vista sulle vigne di Prunotto poco più in basso e, a voltar lo sguardo verso la collina più in alto, sulla meravigliosa tenuta di Aldo Conterno, l'azienda Bussia Soprana è una delle rarissime realtà di quantità, oltre che di qualità, in terra di Barolo. Centomila bottiglie di Barolo l'anno, prodotte dalle uve delle vigne Colonnello, Mosconi, Gabutti e Bussia, e numeri da grande azienda anche per le varie Barbera, per il Dolcetto e il Langhe Rosso Zenit, da uve nebbiolo, barbera e cabernet sauvignon.
Proprio l'argomento del taglio è stato al centro di un acceso dibattito tra un compagno di visita in azienda e Silvano Casiraghi, imprenditore brianzolo dal 1992 titolare di Bussia Soprana.
Concedere che anche in un grande vino da monovitigno come il Barolo possa finire una piccola percentuale di altri vitigni finiti nel vigneto magari per errore del vivaista, poteva avere un senso una volta. Tutti si sentivano autorizzati a raccogliere e vinificare le uve tutte assieme. Oggi i disciplinari non consentono più nemmeno quel margine del 5%, che in molti casi magari raggiungeva pure tacitamente il 15-20%. "Come è successo a Montalcino con il sangiovese "tagliato" merlot", ci ricorda Silvano.
Oggi però, con i nuovi metodi elettronici di riconoscimento dell'uva nel vigneto, c'è poco da fare i furbi. O ci si adegua, o si rischia la gogna mediatica.
Ecco perché alcuni grandi come lo stesso Angelo Gaia a Barbaresco, hanno scelto di creare delle versioni langarole dei supertuscan, in cui vitigni locali e internazionali si fondono in prodotti invisi ai tradizionalisti ma di indubbia qualità.

La degustazione. Grandi Barolo ma che Barbera!
Quando versiamo e portiamo alla bocca un sorso di Barolo 2006, quello più giovane oggi in commercio, strabuzziamo gli occhi e Casiraghi ci anticipa:
"Bere oggi la 2006 è commettere un infanticidio". Proprio così. La sensazione evidente è proprio quella di aver commesso un delitto, come aver colto una mela acerba nel giardino dell'Eden. Ciò non toglie che è fin troppo evidente che si tratta di un vino di enorme potenzialità, e la fantasia vola a quando, tra qualche anno, i tannini si saranno evoluti e l'acidità si sarà ridotta fino a creare un ambiente ideale per valorizzare tutto l'infinito ventaglio di sensazioni gusto-olfattive tipiche del vitigno.
E stupisce trovarlo ancora giovane e in piena evoluzione a dieci anni dalla vendemmia. Anche la 2000, infatti, ci restituisce un vino un tantino scorbutico e spigolosetto, sebbene già di grande personalità.
La vera goduria comincia dalla 1998 a scendere. Dai 12-14 anni in avanti si può capire se un Barolo è degno del nome che porta. E i vari cru dell'azienda sono decisamente prodotti "a lungo termine". Potenti, strutturati, complessi ed eleganti, le migliori annate sono la 97-98-99, ma se abbiamo soldi e spazio in cantina la 2006 merita un investimento. Casiraghi giura che tra qualche anno sarà un vino fuori dal comune, figlio di una grande annata.
Noi ci fidiamo, ci lasciamo trasportare ad assaggiar l'uva matura tra i filari protetti da reti antigrandine garantite 15 anni, e ce ne torniamo in azienda per gli acquisti. Tutti si lanciano sul Barolo. Io no, con le poche finanze rimaste mi concedo qualche bottiglia della Barbera d'Alba Doc Mosconi 2007 bevuta a pranzo.
12 euro a bottiglia, è un magnifico esempio di come anche da queste parti di botti grandi e barriques la barbera possa venire da dio, anche se affinata solo in acciaio.
Unico neo della giornata, a parte le 50 euro buttate al ristorante, la visita cantina. Non pervenuta.

venerdì 13 agosto 2010

Puledro morellino

Se sul vitigno non ci sono dubbi, visto che sempre del toscanissimo sangiovese si tratta (della varietà "piccolo", mentre a Montepulciano e Montalcino va il "grosso"), sull'origine del nome ancora si discute. Morellino come il colore del vino, rosso rubino scuro (un po' come è accaduto per il Brunello), oppure Morellino come la razza dei cavalli montati dai butteri, i cowboys maremmani? Nel dubbio, io ho abbinato il rosso di Scansano, prodotto nell'entroterra grossetano tra i fiumi Albegna e Ombrone, con del filetto di puledro alla griglia.

Un maremmano schietto e loquace
Prodotto dalla Cantina Coop. Vignaioli del Morellino di Scansano, storica cantina sociale nata nel 1978 assieme alla Doc (dal 2007 Docg) e oggi composta da circa 152 soci conferitori, questo figlio della vendemmia 2008 ha colore rosso rubino molto limpido e brillante, con riflessi scuri e discreta consistenza.
Servito in un calice di media ampiezza a 15-16°C, conquista subito con gli aromi varietali del vitigno, che rimandano alle marasche e ai piccoli frutti di bosco, su tutti il ribes, accompagnati da sfumature terrose e di rosa canina e da un'accattivante nota speziata.
In bocca è fresco, il tannino scivola sul palato senza graffiare, accompagnato da tutte le piacevoli sensazioni percepite al naso: frutta rossa, pepe nero e alla fine la piacevole sensazione di rigirarsi tra la lingua il succulento nocciolo di un'amarena matura.
Invita alla beva e invoglia a mangiare. Perfetto con le carni alla brace e con le "casciotte" di pecora fresche o mediamente stagionate tipiche dell'Italia centrale, io la mia mezza bottiglia (3,90 € al Bennet di Lecco) l'ho onorata con del filetto di puledro al sangue. Un po' troppo dolciastra per questo vino "da costata fiorentina" ma comunque binomio assolutamente più che dignitoso.