Globalizzazione? Forse. Ma, se ci pensiamo bene, la tendenza globalizzatrice non ha sempre fatto parte della storia della civiltà? Da quando esistono i commerci le società si sono sempre scambiate prodotti di ogni genere, agricoli, manifatturieri e persino "merce umana". Il riso ce l'hanno portato mille anni fa gli Arabi assieme allo zafferano (--> az-za-faran), così come il pomodoro, il mais e la patata , i peperoni e le melanzane sono gentile omaggio degli indios d'America, il grano è originario della Cina, mentre gran parte della frutta così come ogni vitigno di vitis vinifera sativa, quella commestibile e adatta per fare il vino, proviene dall'Asia Minore. E questo solo per citare gli esempi più clamorosi di questo tipo di antica globalizzazione che ha salvato nel corso dei secoli miliardi di persone dalla carestia e dalla denutrizione. In tempi più recenti il commercio globale ha pure consentito a storiche economie locali non solo di sopravvivere, ma anche di trarre grandi profitti vendendo altrove prodotti di alta qualità che altrimenti sarebbero rimasti confinati in un anonimato ad uso e consumo della gente del posto. Penso alla Valtellina e alla sua Bresaola fatta interamente con manzi provenienti da Brasile e Argentina, così come il grano saraceno dei pizzoccheri e degli sciatt viene oggi importato dalla Cina, peraltro sua vera terra d'origine.La globalizzazione ha cominciato ad assumere una connotazione negativa con l'inarrestabile intensificazione dei traffici aerei e con l'imposizione sul mercato di poche cultivar geneticamente modificate e rinforzate chimicamente da parte delle multinazionali alimentari, chimiche e farmaceutiche. E' a quel punto che il millenario scambio di merci ed esperienze è deragliato su un campo minato, andando dietro alla perversa tirannide del mercato globale ma dimenticando le sacre leggi della Natura e dei suoi tempi. In nome di un mercato vorace e impaziente e delle sue spietate strategie di marketing, la nuova globalizzazione non porta più ricchezza ma impoverisce ciò che abbiamo di più prezioso: la VARIETA'. Inaridisce la biodiversità premiando pochissime specie vegetali e animali superresistenti e superproduttive, e allo stesso tempo devasta le economie locali asservite alla produzione di monocolture da destinare agli insaziabili mercati occidentali. A noi. La forma mentis di chi favorisce tutto ciò è la stessa di chi vorrebbe che ognuno parlasse la stessa lingua e predicasse la medesima religione, prendesse gli stessi medicinali e guardasse gli stessi programmi televisivi. In nome del profitto e del consenso, ci dimentichiamo che quello che ci ha salvato dall'estinzione è stata proprio la ricchezza e la varietà, di razza e di cultura, anche alimentare. La salvezza non può passare che da un rinnovato rispetto dei cicli stagionali e delle economie locali, cercando di portare in tavola sempre e comunque i prodotti del territorio provenienti da aziende di piccole o medie dimensioni. Quelle che non sono soggette alla tirannide delle multinazionali finanziarie. Slowfood lo dice da più di vent'anni e ha fondato pure una rete internazionale che si chiama Terramadre. Oggi finalmente pare che essere "bio" e "local" sia diventato trendy e il consumatore stia interessandosi anche a questa nuova moda, una volta tanto virtuosa. A dimostrazione di ciò vale la pena segnalare il fenomeno dei numerosi Gruppi di Acquisto Solidale (GAS) che stanno sorgendo in tutta Italia.
Nicola Taffuri
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